Page 26 - Nietzsche - Genealogia della morale
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qualsivoglia cosa, non ci è concesso né di sbagliare isolatamente né di arrivare isolatamente

      alla verità. È invece piuttosto vero che con la stessa necessità con cui un albero porta i suoi
      frutti noi produciamo i nostri pensieri, i nostri valori, i nostri sì e no, i se e i forse, affini tra
      loro  e  tutti  insieme  coincidenti,  testimonianze  di  una  volontà,  di  una  salute,  di  un  regno
      terreno,  di  un  sole.  Questi  nostri  frutti,  vi  piaceranno?  Ma  questo  per  l’albero  non  ha
      importanza! Questo non ha importanza per noi, noi filosofi!...

         3.

         Con una mia tipica scrupolosità che confesso malvolentieri – infatti essa si riferisce alla
      morale,  a  tutto  quello  che  sulla  tema  sino  ad  oggi  è  stato  esaltato  come  morale  –  una
      scrupolosità apparsa nella mia vita tanto presto, così spontaneamente, irresistibilmente, così in
      contrasto con ambiente, età, esempi, origine, da darmi quasi il diritto di definirla il mio «a
      priori», – la mia curiosità come del resto il mio sospetto dovettero fermarsi precocemente
      sulla  questione  quale  origine  abbiano  in  realtà  il  nostro  bene  e  il  nostro  male.  Infatti  il

      problema dell’origine del male mi perseguitava già quando avevo tredici anni, e gli dedicai,
      in un’età nella quale si hanno «in cuore per metà giochi infantili e per metà dio», il mio primo
      esercizio di scrittura filosofico – e per quel che riguarda la mia «soluzione» del problema di
      allora,  ebbene,  come  è  ovvio,  resi  gloria  a  Dio  e  ne  feci  il  padre  del  male.  Era  proprio
      questo,  quello  che  il  mio  «a  priori»  voleva  da  me?  quel  nuovo,  immorale  o  per  lo  meno
      immoralistico «a priori», e l’imperativo categorico sua espressione, ahimè, così antikantiano,
      così enigmatico, cui io, nel frattempo, avevo prestato sempre più ascolto e non solo ascolto?...

      Fortunatamente imparai presto a distinguere il pregiudizio teologico da quello morale e non
      cercai più l’origine del male dietro il mondo. Un po’ di istruzione storica e filologica, e in più
      un senso innato e esigente per i problemi psicologici in genere, modificò rapidamente il mio
      problema in un altro, e cioè, in quali condizioni l’uomo si era inventato quei giudizi di valore:
      buono e cattivo? e che valore hanno essi stessi? Fino a oggi hanno ostacolato o promosso la

      prosperità  del  genere  umano?  Sono  segno  di  uno  stato  di  necessità,  di  immiserimento,  di
      degenerazione della vita? o invece in essi si tradisce la pienezza, la forza, la volontà della
      vita, il suo coraggio, la sua certezza, il suo futuro? E qui trovai e osai in me risposte diverse,
      distinsi epoche, popoli, gradi e gerarchie di individui, approfondii specialisticamente il mio
      problema, dalle risposte derivarono nuove domande, ricerche, supposizioni, probabilità: fino
      al momento in cui ebbi un territorio mio, un suolo mio proprio, un mondo discreto, rigoglioso
      e in fiore, simile a quei giardini segreti dei quali a nessuno è permesso di sapere... oh come
      siamo felici noi che ci interessiamo alla conoscenza, ammesso che si sappia tacere abbastanza

      a lungo!...

         4.
         Il primo impulso a rendere noto qualcosa delle mie ipotesi sull’origine della morale, mi
      venne da un libretto chiaro, pulito e intelligente, anzi anche un po’ saccente, in cui incontrai

      chiaramente, per la prima volta, un tipo contrario e perverso di ipotesi genealogiche, e cioè il
      tipo  inglese,  e  che  mi  attirò  con  quella  forza  di  attrazione  propria  di  tutto  ciò  che  è
      all’opposto, agli antipodi. Il libretto era intitolato «origine dei sentimenti morali», l’autore era
      il dottor Paul Rée; l’anno di pubblicazione il 1877. Forse non ho mai letto niente di cui abbia
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