Page 83 - Io vi accuso
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macchinari o nuovi insediamenti produttivi. Quelli a lungo termine, che
per gli istituti rappresentano i più sicuri.
La scelta metterebbe fuori gioco chi desidera investire in attività
«circolanti», a breve termine, ovvero per rifornimenti del magazzino,
stipendi, tasse, spese gestionali: tutte voci imprescindibili per la stragrande
maggioranza delle imprese italiane. Oltre il 60 per cento delle aziende
nostrane sono attive nel settore dei servizi e del commercio, senza contare
quelle che distribuiscono attrezzature comprate da altri produttori.
Pertanto, per quale motivo dovrebbero spendere per macchinari o attività
fisse in generale? Il vero investimento produttivo, in questi anni di
revisione del proprio business, è spesso «soft»: idee, ricerca e brevetti,
talenti e competenze, strumenti di marketing e sviluppo del web. Quale
banca è pronta a valutare anche queste spese come validi impieghi e quindi
finanziarle? Pochissime. In una logica superata e ottusa gli istituti
continueranno – nelle loro valutazioni delle richieste di affidamento – a
dedurre dal patrimonio netto le attività immateriali perché di dubbio valore
sebbene lo sviluppo delle piccole imprese passerà soprattutto dai processi
innovativi. Il problema è che tali investimenti virtuosi vengono considerati
dalle banche come un peggioramento del bilancio delle piccole imprese.
Come si può uscire da questa situazione drammatica? Si deve
necessariamente soccombere o si può pensare a strade alternative? La
risposta è più che mai ovvia: bisogna stamparsi bene nella testa che senza
le banche è possibile farcela lo stesso. Sia a vivere che a lavorare.
Le piccole e le medie imprese possono fare investimenti e crescere
anche riducendo all’osso il sostegno di chi nel tempo le ha conciate così
male. Come? Tanto per cominciare servendosi di figure professionali
innovative e poi puntando su forme di sostentamento che escono dalla
logica bancaria.