Page 31 - 101 storie di gatti
P. 31
16.
MYOBU NO OMOTO, LA
PREDILETTA
DELL’IMPERATORE DEL GIAPPONE
Siamo ancora in Oriente. Ma per la storia di una gattina addirittura “imperiale”
dobbiamo fare un salto indietro nel tempo. Ci spostiamo in Giappone, nei primi
decenni dell’anno Mille, quando l’imperatore Ichijo (vissuto tra il 980 e il 1011
d.C.) aveva una micia alla quale aveva dato il nome di Myobu No Omoto, che
significava “donna in attesa”: parole che indicano chiaramente che la micia aspettava
spesso il padrone nelle sue stanze. Non c’è che dire: un nome abbastanza complesso
che solo lui, forse, poteva pronunciare per intero.
Myobu No Omoto era una gatta adorata al punto che – riferiscono le cronache –
l’imperatore fece imprigionare il padrone di un cane che aveva osato darle la caccia.
Ma a parte il fatto che aspettava il suo sovrano nella zona più remota e proibita del
palazzo imperiale, e che probabilmente era una gatta viziatissima, perfino temuta e
guardata con rispetto anche dai dignitari, non sappiamo nient’altro di lei. Forse non
era molto diversa dai gatti giapponesi di oggi, dal pelo corto e con qualche macchia
colorata sul corpo. Sicuramente, però, il suo taglio d’occhi era un po’ come quello
del suo padrone: una gatta imperatrice con deliziosi occhi a mandorla.
L’imperatore Ichijo non era il solo nel Paese del Sol levante ad amare così
intensamente il suo gatto. Come lui e i suoi sudditi allora, ancor oggi i giapponesi
hanno una specie di venerazione per i felini, al punto che il loro più caratteristico
portafortuna è un gattino bianco con il braccio alzato, in una sorta di saluto o gesto di
protezione. Un amuleto abbastanza comune, che ormai è arrivato in qualsiasi paese
occidentale. Si chiama Maneki Neko, ovvero “gatto del benvenuto”: i giapponesi
sono convinti che attiri benessere e buona sorte a chi lo mette in mostra.
Secondo le tradizioni orientali, Maneki Neko non è l’animale di una favola, ma
l’immagine di un gatto veramente esistito, che ha portato fortuna al luogo in cui
abitava. La storia è questa: in un umile e povero tempio buddista viveva un gatto, di
razza piuttosto comune ma molto, molto intelligente. Un giorno, mentre se ne stava
alle porte del tempio, vide passare un gentiluomo a cavallo: cortese di natura, il
micio gli fece con la zampetta un segno di saluto. Un gesto che colpì molto il
viaggiatore, perché l’uomo scese da cavallo, si accostò al tempio e, viste le
condizioni in cui vivevano i monaci, decise di aiutarli donando loro parte delle sue
ricchezze. Non c’è dunque alcun dubbio: il gesto di saluto del gatto, almeno in quel
caso, portò benessere ai suoi amici sacerdoti.
E c’è anche una seconda versione della storia. Si narra che nel periodo Edo