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BURMA, LA LEGGENDARIA
ORIGINE DELLA RAZZA
BIRMANA
Questa gattina bella e affettuosa si chiama Burma, dal primo nome del suo Paese
di origine, la Birmania. Molto allegra, vuole stare sempre vicina alla sua famiglia.
Ha un portamento elegante, due magnetici occhi blu zaffiro e al suo lungo pelo
aggiunge un tocco di classe con le zampe guantate di colore bianco candido. Ama
parlare più con la voce che con gli occhi, e muove con grande grazia il suo corpo di
aspetto imponente.
Burma è una gatta che vive ai nostri giorni, ma discende dal gatto birmano, una
razza pregiatissima che dall’Oriente arrivò in Europa ai primi del Novecento. Chi
ama questi gatti lo fa anche con una sorta di timore reverenziale, perché nel paese di
origine sono tuttora considerati i gatti sacri per antonomasia.
La sacralità si ricollega a una vicenda suggestiva che ha come protagonista un
antenato della nostra Burma: un gatto leggendario di nome Sinh, vissuto tanti secoli
fa in un tempio Khmer. Sinh era uno dei cento gatti bianchi come la neve e dall’iride
gialla che abitavano nel tempio dedicato alla dea Lao Tsun, in Birmania. Era lì che
si veneravano alcune divinità femminili, come Tsun-Kian-Kse, colei che presiede
alla reincarnazione delle anime, rappresentata da una statua d’oro con due grandi
occhi nei quali brillavano due splendidi zaffiri.
Il più anziano e saggio dei sacerdoti, Mun-Ha, era particolarmente affezionato a
Sinh che ricambiava il sentimento con altrettanto amore. Ma una notte, mentre il
monaco era in meditazione davanti alla statua della dea assieme al suo fedele gatto
bianco, una banda di uomini a cavallo assalì il tempio e ferì a morte il religioso.
Mentre l’uomo giaceva a terra in fin di vita, Sinh si accucciò sopra di lui, rivolgendo
uno sguardo supplice alla dea. Improvvisamente, il pelo del gatto da bianco si fece
color dell’oro come la statua e gli occhi divennero blu zaffiro.
Poi, quando si voltò verso la porta del tempio, le sue zampe, il muso e le
orecchie si tinsero del colore scuro della terra: i piedi, però, ancora appoggiati al
corpo del padrone morente, rimasero bianchi a simboleggiare la purezza del suo
cuore. E nel medesimo momento tutte le altre centinaia di gatti del tempio subirono la
stessa trasformazione, assumendo l’aspetto che ancor oggi caratterizza la razza
birmana.
Ma il racconto prosegue. Guidati dallo sguardo di Sinh rivolto alle pesanti porte
di bronzo del tempio, i monaci si precipitarono a chiuderle, salvandosi così dal
saccheggio e dalla distruzione. Il gatto-eroe aveva, inoltre, accolto in sé l’anima di