Page 40 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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sono  i  topi,  ad  alimentare  il  suo  odio:  è  la  barriera  del  suo  colore.  Il  negro

          americano è prigioniero del proprio colore anche quando i bianchi gli spiegano che è
          un colore come gli altri. Perché in passato gli hanno insegnato che è un brutto colore.
          E questo è il fuoco su cui cadde, come benzina, l’ordine del giorno razzista.
               Era  domenica  pomeriggio.  Di  domenica,  uno  ha  più  tempo  per  meditare  sulle

          proprie  faccende.  Di  domenica,  a  Detroit,  è  proibito  vendere  liquori.  Fioriscono
          perciò  gli  speakeasy,  i  bar  clandestini  del  proibizionismo.  Alcuni  poliziotti
          irruppero in uno speakeasy del ghetto, i negri reagirono mettendosi immediatamente a
          sparare. Accorse  la  guardia  nazionale.  Prima  di  notte  sei  persone  erano  morte.  Il
          reverendo  Nicholas  Hood,  il  solo  negro  con  la  carica  di  assessore  in  municipio,
          tentò invano di arringare la folla, di controllarla. Lo minacciarono chiamandolo zio
          Tom, un appellativo che equivale a quello di collaborazionista: servo dei bianchi.
          Nella confusione qualcuno ruppe la vetrina di un negozio di alcoolici: cento mani si

          allungarono  ad  agguantare  bottiglie,  il  whisky  incoraggiò  presto  i  più  timidi.
          Incoraggiò perfino i bambini, che sembra fossero i più svelti ad aprire il saccheggio.
          Poi, ai bambini si aggregarono i bianchi: c’erano anche molti bianchi a rubare vestiti
          e  pellicce  da  Saks  Fifth Avenue,  il  magazzino  più  elegante  di  Detroit.  Quando  la
          guardia  nazionale  arrivò,  bianchi  e  negri  fuggivano  insieme,  gridandosi

          reciprocamente: Run fast, corri!
               L’America  schizzinosa,  borghese,  l’America  dei  turisti  che  guardano  col
          sopracciglio rialzato le miserie d’Asia o d’Europa, l’America educata nella legalità,
          sembrava  disfarsi  in  quel  grido:  Run  fast,  corri!  Né  il  governatore  Romney,  né  il
          sindaco Cavanagh, né i quattromila poliziotti appena allenati a domar le sommosse,
          né le ottomila guardie nazionali riuscivano a ristabilire un po’ di civiltà. Erano le

          undici di lunedì 21 luglio quando Johnson si decise al gran passo. Era mezzogiorno
          quando  gli  aerei  pieni  di  truppe  cominciarono  ad  atterrare  alla  base  militare  di
          Selfridge. Uno dopo l’altro, senza sosta, a decine: sai quanti aerei ci vogliono per
          trasportare cinquemila soldati.
               Dalle strade massacrate, dai tetti, i ribelli vedevano il cielo riempirsi di aerei e

          anziché impaurirsi intensificavano i combattimenti. Combattere fino alla morte, fight
          to  death,  è  la  parola  d’ordine  che  da  Detroit  raggiunge  le  altre  città.  E  nessuno
          capisce da dove vengano le armi per combattere fino alla morte: se a fabbricare una
          bomba incendiaria basta una bottiglia vuota di Coca-Cola, un po’ di petrolio e un
          fiammifero, a fabbricare rivoltelle, fucili mitragliatori ci vuole qualcosa di più. Ed è
          un  fatto  che  a  Cuba  uno  dei  protagonisti  della  Black  Power  Conference,  Stokely
          Carmichael,  ha  dichiarato:  «Colui  che  ispira  i  negri  americani  è  Che  Guevara. A

          Newark e a Detroit abbiamo applicato la sua tattica di guerriglia. Ora, sempre sul
          suo  esempio,  stiamo  preparando  in  ogni  città  gruppi  di  guerriglieri:  la  nostra
          battaglia non si comporrà di comizi, scorrerà molto sangue che sarà il prezzo della
          rivolta.  Ai  rivoluzionari  dell’America  Latina  i  negri  degli  Stati  Uniti  dicono:  la
          vostra vittoria è la nostra vittoria, e la nostra vittoria è la vostra vittoria».

               Molti  senatori,  a  Washington,  sono  convinti  che  dietro  tutto  ciò  vi  sia  una
          congiura e hanno chiesto un’indagine per stabilire da dove essa sia sobillata, da chi.
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