Page 38 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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e De Simone sembravano divertirsi a non ascoltarlo, provocarlo. A un certo punto

          Smith  sorpassò  i  poliziotti  gridando  tre  o  quattro  bestemmie.  Lo  fermarono  e  lo
          arrestarono. Si sparse la voce che era stato ammazzato. E a niente servì rispondere
          che stava benissimo, più vivo di sempre: una volta trovato il pretesto, non ha alcuna
          importanza che esso sia giusto o ingiusto.

               Da tempo Newark bolliva, brontolava minacce. I suoi slums sono fetidi, infestati
          dagli scarafaggi, dai topi, la disoccupazione è dell’otto per cento, i ventisei milioni
          di  dollari  che  il  Fondo  federale  antipovertà  ha  speso  in  assistenza  son  caduti  nel
          ghetto come un sassolino nel mare. Sono negri così disgraziati, e difficili, quelli di
          Newark.  In  massima  parte  vengono  dal  Sud,  dove  facevano  i  contadini.
          Abbandonarono il  Sud nella speranza di trovare un altro lavoro, non lo trovarono
          perché  non  sapevano  far  altro  che  i  contadini,  e  una  nuova  infelicità  li  inghiottì:
          nutrita dall’indolenza caratteristica di chi è nato nelle piantagioni, e lì è cresciuto

          portandosi  addosso  il  marchio  di  creature  inferiori  imposto  dai  bianchi.  Di  qui
          all’accattonaggio, alla prostituzione, alla rapina, talvolta all’assassinio, il passo è
          breve: l’umiliazione a lungo sofferta, l’ignoranza, la stessa incapacità si traducono
          spesso  in  rabbia  suicida  e  omicida.  Gridando  che  Smith  era  stato  ammazzato,
          circondarono  il  posto  di  polizia,  presero  a  lanciare  sassi  e  bottiglie.  L’indomani

          uccisero un poliziotto bianco a colpi di rivoltella e pedate. In neanche tre giorni le
          vittime, da una parte e dall’altra, salirono fino a ventisei. Si sparava dalle finestre e
          dai tetti, si lanciavano bombe incendiarie, si saccheggiavano case e negozi: come in
          questi giorni a Detroit. E, come se ciò non bastasse, su questo si alzava, a incitare, la
          voce dei professionisti dell’odio.
               La sommossa di Newark, la più sanguinosa prima di quella di Detroit, non era

          stata ancora domata che proprio a  Newark si aprì la  Black  Power  Conference: il
          congresso per il potere nero. Lo slogan «Black Power», potere nero, fu lanciato su
          scala nazionale solo un anno fa da quello stesso Rap Brown che prima predicava la
          tolleranza e ora predica la violenza. In un anno, esso è divenuto un’espressione che
          fra i negri esercita lo stesso effetto che esercitava il grido «Viva Verdi» tra i patrioti
          del Risorgimento italiano. La ripetono tutti e nessuno s’è messo d’accordo sul suo

          significato. Per i liberali come Martin Luther King «Black Power» significa orgoglio
          della propria razza e rivendicazione dei diritti civili.  Per i tipi come  Rap  Brown
          significa sottomissione dei bianchi. Per altri ancora, ritorno alla madrepatria, cioè
          l’Africa.
               Quando  la  Black  Power  Conference  ebbe  inizio,  fu  subito  chiaro  che
          l’interpretazione prevalente dello slogan non sarebbe stata quella di Martin Luther

          King. Tra i millecento negri convenuti a Newark da ogni Stato d’America non c’era
          Martin  Luther  King.  E  non  c’erano  i  suoi  seguaci,  Roy  Wilkins,  Whitney  Young:
          gente  democratica,  colta,  di  grande  qualità.  C’era  Rap  Brown,  che  per  meglio
          esprimere il suo disprezzo per i bianchi ostentava una parrucca africana, composta di
          riccioli fitti e cresputi. C’era il suo amico Stokely Carmichael, un bel giovanotto che
          ora si trova a Cuba, condottovi dalla sua cordialità con Castro e da un messaggio di

          Che  Guevara.  C’era  Ron  Karenga,  leader  dei  nazionalisti  neri,  che  si  abbiglia
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