Page 39 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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tutte le regole. I reporter mi interrogarono per quasi un’ora. Il fatto era per loro
eccezionale e divertente. L’indomani tutti i giornalisti riportavano la notizia e le mie
fotografie: «Ha fatto aspettare la regina», «Ha un colloquio con la regina e va in giro
per il bazar». Questo era ancora peggio e io fui doppiamente disperata. Per
consolarmi, Joe decise di portarmi a visitare il Golestan e mi regalò una quantità
incredibile di dolci, di pistacchi, di miniature d’avorio, mi comprò una stampa
antichissima, una pipa per fumare l’oppio e perfino un tacchino vivo. Era paziente e
affettuoso come se si fosse trattato di consolare una ragazza afflitta da una immane
sciagura. «Non te la prendere» diceva mentre passeggiavamo per la città, «dopotutto
puoi sempre scrivere di aver fatto aspettare una regina. Non è mica da tutti.»
Stavamo facendo questi discorsi quando un soldato ci fermò. Chiese il mio nome,
volle vedere il mio passaporto. «Mi scambia per qualcun’altra» dissi a Joe. «No»
rispose lui che parla il persiano come l’inglese, «cercano proprio te.» Il soldato
aveva molta fretta, chiese a Joe di seguirlo. Salimmo su un taxi, col soldato che mi
guardava fisso e cominciammo a correre attraverso la città.
«Cosa vuole?» chiesi a Joe, incominciando a preoccuparmi. «Chi lo sa» disse
lui. «Forse vogliono arrestarti perché hai fatto aspettare la regina.» Guardai il
soldato: continuava a fissarmi con aria gelida. Non c’era dubbio, voleva arrestarmi.
Malinconicamente, meditai sul mio strano destino: essere venuta in Persia per finire
in prigione. Pensai con rimorso a mia madre, a mio padre, alle mie sorelle, alla
faccia che avrebbero fatto sapendo che ero stata rinchiusa in una prigione di Teheran
per aver fatto aspettare la regina. «Joe» gridai disperata. «Mi fucileranno?» Joe
scosse la testa. «Non credo. Dopotutto sei una straniera.» Appariva molto divertito,
avevo una voglia pazza di prenderlo a schiaffi. Stavo per farlo quando il taxi si
fermò a un portone elegante. Scendemmo. Attraversai un giardino, entrai in una bella
casa arredata con gusto europeo. Non è una caserma, pensai, rinfrancata, e in quel
momento un signore autorevole e sorridente entrò quasi gettandomi le braccia al
colo. Era il Gran Ciambellano. «Che Allah la protegga» disse, tirando un gran
respiro di sollievo. «Grazie al cielo l’abbiamo trovata. Ho sguinzagliato tutti i miei
segugi per individuarla fra tutte le straniere piccole e bionde della città. Corra a
cambiarsi, si metta un abito nero: la regina l’aspetta. È così curiosa di conoscerla
dopo quel che è successo che ha fissato un nuovo appuntamento.»
Mi precipitai in albergo, misi il mio abito da cerimonia, mi recai con Joe a
Palazzo Imperiale. Joe rideva perché sapeva fin dall’inizio la ragione per cui il
soldato mi aveva ordinato di seguirlo sul taxi. «Ora sì che diventerai la ragazza più
celebre della città» disse. Ed io non ebbi tempo di chiedere spiegazioni perché
appena scesa dinanzi alla reggia di marmo venni di nuovo assalita dai fotografi e dai
giornalisti. Il resto è noto. Un picchetto armato ci consegnò a un ufficiale, l’ufficiale
a un altro ufficiale, e così scortata attraversai il parco del palazzo imperiale, salii lo
scalone d’onore, attraversai molti saloni dov’erano i tappeti più belli del mondo,
venni introdotta nella sala degli ospiti che è quasi grande come il Salone dei
Cinquecento in Palazzo Vecchio e raccoglie i quadri dei più celebri attori della
Persia. Ora verrà qualcuno per introdurmi dalla regina, pensai. Invece Soraya entrò