Page 38 - Oriana Fallaci - Solo io posso scrivere la mia storia
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Delusi ci recammo dall’ambasciatore italiano il quale fu molto gentile e promise
di occuparsene. Ma i giorni passavano e di intervistare Soraya non si parlava
nemmeno. Io, Guzman e Barbicinti diventammo irascibili, quasi nemici. Ci
sorvegliavamo a vicenda per paura che qualcuno si recasse a palazzo imperiale, ci
inseguivamo, ci facevamo la spia, formavamo temporanee alleanze contro il terzo
che sembrava sospettabile. Inventavamo trucchi abilissimi per scoprire le vere
intenzioni. Per esempio ci telefonavamo, di notte, chiedendoci: «Quando vai da
Soraya?» sicuri che nel dormiveglia quello parlasse. Eravamo diventati
insopportabili, dispettosi come bambini.
La comunicazione con cui si inizia la storia che piace tanto al mio amico
Mazandi giunse, improvvisa, durante un cocktail. Fu l’ambasciatore a portarmela,
strizzando un occhio: «Congratulazioni» disse sottovoce. «Lei vedrà la regina. E
soltanto lei. Le richieste degli altri non sono state accettate.» «Davvero,
eccellenza?» strillai e fui tanto felice da dimenticare di chiedergli il giorno
dell’appuntamento. L’ambasciatore, brindando, se ne dimenticò con me. Ero talmente
ciarliera ed euforica, che Barbicinti mi guardò con sospetto. «Sembra tu debba
andare dalla regina» disse di malumore. «Infatti» risposi io, «vado proprio dalla
regina.» «Già» disse lui, sicuro che scherzassi, «salutamela tanto.»
L’indomani mi alzai piena di progetti e per festeggiare l’avvenimento invitai tutti
quanti a venire in giro per Teheran. Andammo al Bazar, poi al museo, poi al mercato
dei tappeti, poi al mausoleo di Reza Scià, poi a mangiare da Suren che è il locale più
elegante di Teheran, gestito da un ex ufficiale dello Zar, e quando fu quasi buio e non
avemmo più alcun posto in cui andare, ci recammo all’ambasciata. Appena entrai
scorgemmo un gruppo di persone eccitate. «È inaudito» diceva uno, «è scandaloso.»
«Anche lo Scià se n’è avuto a male» diceva un altro, «roba da provocare
complicazioni internazionali.» «Non è mai successo» ripeteva un altro ancora
agitando le mani. «Cos’è successo?» chiesi a un usciere. «Non lo sa?» rispose lui.
«La regina ha concesso un colloquio ad una giornalista italiana e la giornalista non è
andata all’appuntamento.» Un brivido mi corse lungo la schiena. «A che ora doveva
andarci?» balbettai. «Alle undici» disse l’usciere. Guardai l’orologio. Erano le sei.
Per otto ore Soraya mi aveva aspettato ed io, ignara, me ne andavo in giro per
Teheran a festeggiare un colloquio perduto. […]
Mi allontanai in punta di piedi per non farmi vedere. Rientrai in albergo con una
gran voglia di piangere. Nessuno, ch’io sappia, ha mai fatto aspettare una regina,
neppure in questi tempi di democrazia. Avevo commesso la più grave delle
scorrettezze, ed avevo perso una delle migliori occasioni della mia carriera di
giornalista. Disperata, annichilita, telefonai a Joe. «Joe» dissi. «È successa una cosa
terribile. La regina mi aspettava e io non lo sapevo.» «Cosa?» urlò Joe e buttò giù il
ricevitore. Anche lui era rimasto indignato, dunque. E quando un giornalista
americano si indigna vuol dire proprio che la si è combinata grossa. Non sapevo che
fare, lentamente mi avviai verso l’uscita. Ero sulla porta quando mi trovai circondata
da una ventina di giornalisti e di fotografi. In prima fila c’era Joe che mi spinse nella
hall e mi obbligò a raccontare quel che era successo. Fu una conferenza stampa con