Page 32 - Le canzoni di Re Enzio
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La messe torna donde partì seme,
            da sé ritorna all’aia ed alle cerchie.

            I mietitori ai lati del biroccio
            vanno accaldati, le falciole a cinta.

            Sul mucchio, in cima, un bel fantino ignudo.
            Tre vecchi gravi seguono il biroccio,

            i tre fratelli, un bianco, un grigio, un bruno.
            Ma di lontano, dalle gialle stoppie,

            un canto viene di spigolatrici.
            Sola comincia Flor d’uliva il canto,

            poi le altre schiave alzano un grido in coro:



            Sette anni planse, oimè sett’anni sani,
            e scalza andava, un vinco in ne le mani.

            Pecore e capre aveva entorno, e’ cani.
                       Sette anni, oimè taupina sclava,

                       sett’anni planse: un dì, cantava...
            Passava un cavaleri de la crose,

            sentì lassù la dolze clara vose,
            ligò ‘l cavallo cum la brillia a un nose:

                       «Vosina clara como argento,
                       sett’anni è sì, che no te sento... »



            Son tra i pioli i ben legati fasci,

            le spighe in dentro, e sovra il mucchio d’oro
            che va da sé, siede il fantino e ride.

            Ride gettando i fiordalisi in aria
            e le rosette: al piccolo di casa

            mandano a gara, uomini e donne, un motto,
            mandano a prova, verle e quaglie, un suono.

            Parlano i vecchi, i tre fratelli, insieme.
            E l’uno parla, e dice: «Arregidore,

            ben Vidaliagla si può dir granaro».
            E l’altro parla, e dice: «Campagnolo,

            la terra è buona, ma voi meglio siete;
            voi, meglio, e i bovi del fratel Biolco».

            Tace il Biolco, ma s’allegra in cuore.
            E più lontano viene dalle stoppie




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