Page 33 - Le canzoni di Re Enzio
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il canto tristo. Flor d’uliva intuona:
            seguono l’altre, ch’oggi sono ad opra:



            Ligò ‘l cavallo, e se li fece avanti.

            «Deh! pasturella, Deo te guardi e’ Santi.
            Mangiasti bene, così gaia tu canti!»

                       «Vui dite, la Deo gratia, vero:
                       mangiammo, e’ cani et eo, pan nero».

            El cavaleri la mirò cum dollia.
            «Ne’ to’ cavelli sempre ‘l vento brollia,

            lassa tra’ rizzi l’erba ‘l fior la follia».
                       «El vento no, non è, meo Sire:

                       è che nel feno aio a dormire... «



            Fermo è il biroccio. Al bel fantino stende
            le mani, e d’alto lo raccoglie in collo,

            la prima nuora; e gli uomini e le donne
            prendono i fasci e fanno il cavaglione.

            L’Arregidore dice al Campagnolo:
            «Spighe segate e manipelli a bica

            di rado o mai Santo Zuanne ha visti».
            Dice il Biolco: «E seghisi la stoppia

            prima che piova, non la terra v’entri!»
            E il Campagnolo: «E tosto ariamo. Arare

            tre volte è bene, quattro volte è meglio».
            E dice qui l’Arregidora, e passa:

            «Ben ci faranno ceci fava ervilia!»
            E passa, ch’ella ha da far cena, e il giorno

            è già sul calo. Ma vie più lontano
            vien dalle stoppie il canto delle schiave:



            Al cavaleri ansava forte ‘l pecto.

            «In quil castello u albergare aspecto,
            dimme s’eo posso ritrovare un lecto».

                       «Di plume, eo l’ebbi, in quil castello,
                       col Sire meo sì blondo e bello!»

            «Tristo a cui te fidai nel meo passare!
            Dolze mea sposa, eo torno a te dal mare».




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