Page 26 - Le canzoni di Re Enzio
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e’ non sa più di timpani e di trombe,
            nel dolce tempo quando foglia e fiora,

            ch’egli tendea nei prati i padiglioni.
            Non più dai geti libera l’astore,

            delle canzoni perse il motto e il suono.
            Non suono più di corni o di leuti,

            ma pii bisbigli e il canto della messa.
            Anche ha dimenticato gli anatemi,

            e il bando a lui nel giorno dell’ulivo,
            e i giorni d’ira, i giorni di sventura

            coi ceri accesi e le campane a festa.
            Dorme nell’arca rossa l’Anticristo

            nato alla vecchia monaca, e nudrito
            da sette preti. Presso, il mare aspira

            col lento succhio tutto il cielo azzurro:
            al cielo dà Gennet-ol-ardh l’olezzo

                       dei cedri e delle rose.



            Al morto grande imperador di Roma
            dissero pace i vescovi di Cristo.

            Di lui parlò ‘l rabbino al Dio d’Abramo,
            a braccia spante volto all’Oriente.

            Per lui, girando attorno al minareto,
            le cinque volte il muezzin cantò.

            Or egli giace nell’oscura cripta,
            coi mali e i buoni. Oh! avessero favella!

            Direbbe forse alcuno dal sepolcro:
            - Qual sei disceso presso noi Ruggero?

            Noi padre il vento e madre avemmo l’onda. –
            Risponderebbe: — O figli di Vikinghi!

            Anch’io fui vento, figlio anch’io di vento!
            Né Skaldo mai cantò sull’arpa un canto

            più grande e bello, né più bello e grande
            mondo mai vide Re del mare in corsa,

            del sogno mio... — Ma più non ha favella
            ora, e il coperchio è sceso omai per sempre

                       sull’arca fiammeggiante.






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