Page 33 - Francesco tra i lupi
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concerto finale per la chiusura dell’Anno della fede. Il concetto, che si sforzerà di inculcare nei mesi seguenti
    scandalizzando  profondamente  i  cultori  del  papa-simbolo,  è  che  il  pontefice  è  una  persona  normale,  che
    «ride, piange, dorme tranquillo e ha amici come tutti».
      L’eliminazione  degli  orpelli  monarchici  si  concretizza  ulteriormente  in  piccoli  dettagli.  Niente  gratifica
    straordinaria concessa ai dipendenti vaticani per l’elezione del nuovo papa. Bloccate le onorificenze papali
    tranne  che  per  i  diplomatici  stranieri.  Interrotta  la  nomina  dei  gentiluomini  di  Sua  Santità.  Abolita  la
    concessione del titolo di monsignore a sacerdoti al di sotto dei sessantacinque anni.
      Nello smontare l’icona della Chiesa imperiale Francesco è aiutato dal ritiro di Benedetto XVI. L’abdicazione
    ha umanizzato il papato e lo ha desacralizzato. Ratzinger, da cardinale, aveva intuito che la monarchia papale
    non era più sostenibile nelle forme tramandate: «Una Chiesa dalle dimensioni mondiali, e in questa situazione
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    del pianeta – mi disse pochi mesi prima di essere eletto – non può essere governata in modo monarchico» .
    Diventato papa, non ha avuto il coraggio di mettere mano alla riforma.
      Francesco va alla radice del problema. Ridimensiona la forma di Chiesa esasperatamente piramidale, dove la
    curia romana è il quartier generale: un luogo di comando, dove gli ambienti stessi nel loro fasto e nella loro
    bellezza  emanano  la  convinzione  di  essere  il  «centro»  e  il  «tutto»  dell’orbe  cattolico.  Un’arroganza  datata,
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    secondo  lo  storico  della  Chiesa  Alberto  Melloni .  Per  Francesco  è  venuto  il  momento  di  realizzare  la
    “collegialità”,  quel  principio  sancito  dal  concilio  Vaticano  II  per  cui  papa  e  vescovi  insieme  –  così  come
    Pietro  unito  agli  apostoli  –  hanno  la  responsabilità  condivisa  del  governo  della  Chiesa  universale.  Papa  e
    vescovi sono tutti «vicari di Cristo». La svolta del concilio sta qui. Non più vescovi simili a prefetti, subordinati
    ad un pontefice-monarca, bensì apostoli che insieme al papa hanno cura della Chiesa intera.
      Per questo obiettivo è necessaria una leva di vescovi estranei al carrierismo. Ai nunzi, che hanno il compito
    di tracciare per conto della Santa Sede i profili dei candidati all’episcopato, Bergoglio rivolge il monito: «Siano
    pastori vicini alla gente, amino la povertà, non abbiano una psicologia da “principi”. Siate attenti che non
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    siano ambiziosi» . Il vescovo non deve essere «né principe né funzionario», ribadisce spesso. E neanche un
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    burocrate «attento principalmente alla disciplina, alle regole, ai meccanismi organizzativi» .
      I grandi papi hanno in testa il loro programma già all’indomani della loro elezione. Giovanni XXIII, la sera
    stessa del conclave, chiamò dopo cena mons. Domenico Tardini per comunicargli che lo nominava segretario
    di  Stato.  Dell’idea  di  un  concilio  parlò  agli  intimi  appena  dieci  settimane  dopo  essere  stato  eletto.
    All’opportunità di una convocazione aveva accennato, in privato, già quando era nunzio in Turchia tra il 1934
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    e il 1944 .
      Quattro giorni dopo l’elezione Bergoglio ha deciso chi sarà il nuovo segretario di Stato, chiamato a sostituire
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    il  cardinale  Bertone .  L’uomo  scelto  è  mons.  Pietro  Parolin,  cinquantotto  anni,  nunzio  in  Venezuela  e
    precedentemente,  dal  2002  al  2009,  sottosegretario  agli  Affari  esteri  della  Santa  Sede.  Viene  dalla  grande
    scuola di diplomazia dei cardinali Casaroli e Silvestrini. Prima di essere mandato in Venezuela nel 2009, aveva
    negoziato  l’accordo  tra  Santa  Sede  e  Vietnam.  Sulla  sua  base  le  due  parti  hanno  allacciato  relazioni
    diplomatiche e, dal 2010, il Vaticano può nominare vescovi in Vietnam, presentando al governo una terna
    (come accadeva negli stati dell’Est europeo durante la guerra fredda). Parolin è destinato ad essere il segretario
    di Stato di una curia più leggera e aperta alla collaborazione con i vescovi del mondo. Ha una dote, che per il
    pontefice argentino è essenziale: l’impegno sacerdotale. È un buon prete, racconta chi lo conosce.
      Papa Francesco ha pianificato tutto. Per diplomazia lascia che trascorrano sette mesi, durante i quali Bertone
    cerca invano di ottenere la proroga di un anno. Ma a marzo il papa ha già stabilito che il cambio della guardia
    avverrà dopo l’estate e così sarà. Parolin, che verrà fatto cardinale, assume ufficialmente l’incarico il 15 ottobre,
    anche se effettivamente arriverà in segreteria di Stato il 18 novembre dopo un’operazione improvvisa al fegato.
      Trenta giorni dopo il conclave il papa inizia la sua rivoluzione. Con un comunicato stampa istituisce un
    gruppo di lavoro, di cui fanno parte otto cardinali dei cinque continenti. Per l’America latina il cardinale
    honduregno Oscar Rodríguez Maradiaga, nominato coordinatore, e il cileno Francisco Javier Errázuriz. Per
    l’America del Nord lo statunitense Sean Patrick O’Malley. Per l’Europa il tedesco Reinhard Marx. Per l’Asia
    l’indiano Oswald Gracias. Per l’Africa il congolese Laurent Monsengwo Pasinya. Per l’Oceania l’australiano
    George Pell. La mappa dei consiglieri riflette la Chiesa globalizzata che Francesco ha in mente. C’è un solo
    esponente  di  curia,  il  cardinale  Giuseppe  Bertello,  presidente  del  governatorato  dello  Stato  della  Città  del
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