Page 32 - Francesco tra i lupi
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lasciò ai poveri il suo palazzo. Oppure con abitudini da ceto medio. Per non dire di presuli altezzosi simili ad
    aristocratici della Vecchia Castiglia. L’umiltà di Francesco non è folclore. I gesti controcorrente riflettono la
    sua personalità. Per il cardinal Ruini rimandano all’«austerità dei professori gesuiti, che non possedevano nulla
    tranne i loro libri».
      Lo stile non convenzionale è soprattutto al servizio di un lucido disegno. Smontare il carattere imperiale del
    papato, l’assolutismo cesareo, semidivino, nutrito dell’aura di infallibilità, che nei secoli si è sedimentato alla
    corte papale ed è racchiuso nel titolo stesso, pagano, dei successori di Pietro: sommo pontefice.
      A pochi giorni dall’elezione papa Francesco provoca la scossa più forte all’immagine di potenza del Vaticano.
    Ricordando la scelta del suo nome e il santo di Assisi, Bergoglio si interrompe e mormora a voce bassa, con
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    un  forte  sospiro:  «Ah,  come  vorrei  una  Chiesa  povera  e  per  i  poveri!» ,  parole  accolte  da  un  applauso
    scrosciante dell’uditorio. L’«Osservatore Romano» mette la frase in prima pagina a caratteri cubitali. Non è
    questa la Chiesa che viene in mente di primo acchito, quando la gente viene interrogata nei sondaggi. Chi era
    nell’aula delle udienze quel giorno, ricorda l’emozione fortissima avvertita nell’udire queste parole scandite
    come un programma.
      Quanto di “sacro” e di altisonante è stato aggiunto al ruolo iniziale del vescovo di Roma non deriva dal
    cristianesimo  e  tantomeno  dalla  buona  novella.  «Tutto  ciò  che  riguardava  l’imperatore  Diocleziano  veniva
    definito “sacro”: gli editti, la camera da letto, la guardia, la cancelleria di palazzo», scrive lo storico Giovanni
    Filoramo,  rievocando  la  ritualità  del  tardo  impero  romano.  «Colui  che  beneficiava  di  una  udienza
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    dell’imperatore era ammesso all’“adorazione della porpora”, il lembo del mantello imperiale» .
      Il rosso dei calzari e del mantello papale deriva da lì. Non c’entrano niente il rosso del sangue e una simbolica
    disponibilità al martirio. È il rosso del potere assoluto. Il prostrarsi dinanzi al papa dei cardinali è l’annullarsi
    dei sudditi di fronte all’imperatore romano e al re dei re persiano. La “Sacra Rota”, la “Santa Inquisizione”, i
    “sacri  palazzi”,  le  “udienze  di  baciamano”,  le  “sacre  congregazioni”,  il  “bacio  della  pantofola”  papale
    riecheggiano pratiche delle monarchie assolute orientali, dove il cenno del sovrano era legge suprema.
      «I capi della Chiesa spesso sono stati narcisi, lusingati e malamente eccitati dai loro cortigiani. La corte è la
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    lebbra del papato...», confida Francesco ad Eugenio Scalfari, fondatore della «Repubblica» .
      Ancora cinquant’anni fa si potevano vedere pontefici sulla sedia gestatoria circondati da uno sventolio di
    flabelli, retaggio dei faraoni egizi. Soltanto Paolo VI ha accantonato il triregno, l’alta corona che rivendicava la
    supremazia dei papi su tutti i re della terra. Giovanni Paolo II ha abolito la sedia gestatoria, cosa che non era
    riuscita al timido Luciani. Il mite Benedetto XVI ha fatto un passo oltre, cancellando il triregno dalla grafica
    papale e ponendo sullo stemma la semplice mitria vescovile. Francesco nei suoi comportamenti rende più
    rapida e visibile la spoliazione dei simboli non cristiani.
      Giovanni  XXIII,  appena  eletto,  rimase  costernato  quando  il  vice-direttore  dell’«Osservatore  Romano»
    Cesidio Lolli gli crollò di fronte in ginocchio. «Ma che fa?», esclamò invitandolo a sedere. «Non posso, Santità.
    Questa è l’etichetta», replicò Lolli. «Si sta in ginocchio per pregare, non per lavorare», ribatté papa Roncalli,
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    minacciando di andarsene .
      Bergoglio scandalizza i prelati vaticani perché bacia sulle guance la presidenta argentina Cristina Kirchner e
    accenna  un  baciamano  alla  regina  Rania  di  Giordania.  È  anche  il  primo  pontefice  che  si  lascia  baciare
    regolarmente dai fedeli.
      Tutto serve per smontare la mitologia del pontefice-imperatore. Giovanni Paolo II era caldo, umano, a volte
    giocoso, a volte irato, ma sempre “imperatore” restava. Francesco si lascia alle spalle l’aura monarchica una
    volta per tutte. Il papa è vescovo e deve parlare come un prete. La svolta si manifesta anche nell’annuario
    pontificio. «Francesco vescovo di Roma», recita la pagina iniziale dedicata al papa. Gli altri titoli barocchi –
    vicario di Gesù Cristo, successore del principe degli Apostoli, sommo pontefice della Chiesa universale –
    vengono confinati nella pagina successiva.
      Tre mesi dopo l’elezione diserta un concerto a lui dedicato per l’Anno della fede. Nell’aula Paolo VI il suo
    seggio rimane vistosamente vuoto e prontamente fotografato. Sorpreso, mons. Rino Fisichella, presidente del
    consiglio  per  la  Nuova  Evangelizzazione  e  organizzatore  dell’evento,  annuncia  l’assenza  del  papa  per
    «improrogabili impegni». Alla stessa ora Bergoglio sta studiando le carte dello Ior e lascia filtrare da Santa Marta
    una battuta fulminante: «Non sono un principe rinascimentale». A novembre il papa fa annullare del tutto il
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