Page 25 - Francesco tra i lupi
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Jorge Mario Bergoglio si sente vicino alla fine del suo incarico pastorale. Prevede che il prossimo papa lo
sostituirà, poiché sta per scadere l’abituale biennio di proroga che si concede ai presuli dopo i settantacinque
anni. I suoi collaboratori a Buenos Aires lo trovano a tratti depresso. «Nell’ultimo tempo lo vedevo stanco e
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abbattuto, perché era vicino alla pensione», dice il suo ex portavoce, padre Guillermo Marcó . Nel novembre
precedente all’abdicazione di Benedetto XVI, don Pedro Baya vede arrivare nella borgata Ramón Carrillo
l’arcivescovo Bergoglio e lo trova così «esausto e stanco» che decide di fargli una foto: «Temevo di non vederlo
più». Improvvisamente Bergoglio si ricorda di un prete che aveva lavorato in zona, padre Vernazza. Gli
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portano una fotografia e lui – generalmente così chiuso – si mette a piangere accarezzando il ritratto .
Psicologicamente pronto al distacco, Bergoglio ha già prenotato una stanza nella residenza per sacerdoti
anziani nel quartiere di Flores, dove è nato. A Roma è venuto con in tasca il biglietto per il volo di ritorno e
dopo avere pre-registrato il tradizionale messaggio pasquale da arcivescovo per l’emittente diocesana Canal-21
di Buenos Aires.
L’arcivescovo di Buenos Aires ha in testa un suo candidato: il cardinale O’Malley di Boston, distintosi in
diocesi per il suo impegno contro il clero pedofilo. Già prima di partire per Roma Bergoglio si è fatto un’idea
precisa del profilo del prossimo papa: un uomo di preghiera, un pontefice convinto che il padrone della Chiesa
sia Cristo e non lui, un vescovo con l’attitudine a «mostrare affetto alle persone e creare comunione». E infine
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«deve essere in grado di ripulire la curia romana» . Lo ha confidato a Buenos Aires a un gruppo di religiosi del
movimento di Schoenstatt.
Dalla lontana America, da Boston, è invece arrivato a Roma un porporato con l’idea che Bergoglio sia un
ottimo papabile. Si tratta di O’Malley. L’arcivescovo di Boston, che parla perfettamente lo spagnolo e ha
fondato un ente assistenziale per gli immigrati ispanici, sa che la sua opinione è condivisa da tre confratelli
sudamericani: il brasiliano Cláudio Hummes, vicino alla teologia della liberazione e molto critico verso la
curia romana dopo aver passato quattro anni come prefetto della congregazione per il Clero, dal 2006 al 2010,
impossibilitato a rinnovare alcunché, l’honduregno Oscar Rodríguez Maradiaga e il cileno Francisco Javier
Errázuriz.
Il filo tra questi due poli si tesse molto lentamente, nell’atmosfera frammentata che caratterizza il pre-
conclave del 2013. Dello stesso parere di O’Malley è l’energico e attivissimo arcivescovo di New York
Timothy Dolan, guida del gruppo cardinalizio americano che rappresenta quasi il 10 per cento del conclave.
Sono undici i porporati nordamericani, si muovono in squadra, arrivano alle riunioni generali in Vaticano
tutti insieme con un pulmino e organizzano anche un paio di conferenze stampa per informare l’opinione
pubblica sull’andamento del dibattito alle congregazioni generali. Dopo due giorni il Vaticano li stoppa in
nome del segreto imposto alle riunioni.
Gli americani sono divisi nelle preferenze, ma hanno un programma condiviso che convince parecchi
cardinali elettori. Chiedono trasparenza e ordine nelle questioni finanziarie del Vaticano, un radicale
risanamento dello Ior, una riforma della curia nel senso dello snellimento e della sburocratizzazione e infine –
altra grande richiesta di molti episcopati – un riequilibrio del rapporto tra Santa Sede e conferenze episcopali.
Dal futuro pontefice ci si aspetta che consulti i vescovi più spesso e con regolarità.
È il principio di «collegialità», sancito cinquant’anni prima dal concilio Vaticano II. Un principio mai
realizzato. Il cardinale tedesco Walter Kasper, che per soli sette giorni sfugge alla tagliola che impedisce ai
cardinali ottantenni di entrare in conclave, anticipa: «Serve una nuova modalità nell’esercizio del governo della
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Chiesa... un governo più orizzontale» .
Dolan ha stabilito un ottimo rapporto con il nunzio papale negli Stati Uniti, mons. Viganò, l’ex segretario
generale del governatorato vaticano trasferito a Washington dopo la denuncia delle ruberie nei sacri palazzi.
Per la cultura anglosassone rubare soldi della comunità è inammissibile. Viganò «è una persona che non ha
paura di dire la verità e indicare le aree della Chiesa, che necessitano di riforme», lo elogia Dolan sulle pagine
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del «New York Times» .
Vatileaks pesa molto sul pre-conclave, anche se i porporati non riescono ad avere informazioni sull’inchiesta
condotta dai tre cardinali Herranz, Tomko e De Giorgi per ordine di Benedetto XVI.
C’è un altro gruppo di cardinali alla ricerca di un candidato di svolta, è quello dei riformatori di lingua
tedesca. Ne fanno parte i cardinali Christoph Schönborn di Vienna, il tedesco Karl Lehmann, per lunghi anni