Page 56 - Prodotto interno mafia
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casa  e  ci  danno  consigli»  –  la  ’ndrangheta  non  ha  ispirato

               narrativa e cinema. Non ha generato un’epica. Spiega Gratteri:
               «L’organizzazione  non  ha  mai  spettacolarizzato  i  suoi

               atteggiamenti:  si  è  sempre  confusa  con  la  società,  con  il
               quotidiano.  Cosí  si  è  resa  impercettibile,  invisibile,  rispetto

               all’esteriorità e al folclore delle altre mafie». Se mai un regista
               dovesse  decidere  di  fare  un  film  sulla  ’ndrangheta,  Gratteri
               sarebbe il perfetto consulente per la sceneggiatura.

                   Le sue indagini lo portano spesso fuori dai confini nazionali:
               arresta ad Amsterdam Giovanni Strangio, ricercato per la strage

               di Duisburg del 2007; a Bogotà svela i rapporti tra ’ndrangheta e
               narcotrafficanti colombiani; arriva fino in Canada per mettere le

               manette al boss Giuseppe Coluccio, inserito nella lista dei trenta
               latitanti piú pericolosi d’Italia. E quando torna nella caserma di

               Reggio Calabria – dove dorme in una stanza minuscola, un letto,
               un  armadietto  di  ferro,  un  crocifisso  alla  parete  –  ha  una  sola
               passione: coltivare l’orto. Conosce i nomi delle piante e dei fiori,

               ne decanta le proprietà curative, gli odori.
                   Saliti in cima al tetto della caserma, mentre abbiamo di fronte

               il Mediterraneo, Gratteri dice senza illusioni che «la ’ndrangheta
               ormai è vasta quanto il mare». Eppure gli occhi di quest’uomo –
               in apparenza ruvido – non hanno perso speranza. È convinto che

               la  mafia  si  possa  combattere.  Per  farlo  però  bisogna  parlare,
               scrivere, andare in televisione, non importa correre il rischio di

               passare per «soubrette». I rischi sono cifra di una scelta compiuta
               anni fa, quando, figlio di una famiglia umile, decise di entrare in

               magistratura.
                   Chi si trova per lavoro o vocazione a occuparsi di mafie, sa

               che  sempre,  nelle  conversazioni  con  uomini  di  legge,  salterà
               fuori  il  nome  del  giudice  Giovanni  Falcone.  Al  punto  che
               ironicamente un giovane amico magistrato a Palermo (con la foto

               di Falcone sulla scrivania) una volta mi ha detto: «Bisognerebbe
               includere  nel  giuramento  dei  magistrati  l’obbligo  di  non

               nominare il nome di Falcone invano».
                   Nei  tre  incontri  (l’ultimo  a  Capalbio  dove  il  procuratore





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