Page 1236 - Shakespeare - Vol. 3
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honest, and think she is not, / I think that thou art just, and think thou art
not» (III, iii, 390-391). La tragedia ruota su queste ambiguità. Ciascuno −
Iago, Otello, Desdemona − appare ciò che non è, non sembra quel che è:
ambiguità e paradosso incrinano l’identità e l’essere stesso dei protagonisti. Il
momento della verità è, per convenzione teatrale, negli asides o nei soliloqui:
ma anche qui constatiamo che la natura profonda cela quel che rivela,
ammanta di verità il falso.
Tutta la tragedia registra uno scarto fra apparenza e realtà, fra seeming e
being (il lemma seeming è qui usato più che in qualsiasi altra opera di
Shakespeare). Il motivo della (dis)onestà di Iago è usato a iosa, fino a
spremere ogni potenziale dalla sua intrinseca ambiguità (per i riscontri di
entrambi, si rimanda alle Note al Testo). Altre opposizioni percorrono il
dramma: fra notte e giorno, cielo e terra, magia nera e magia verbale,
saggezza e follia, sapere e ignoranza, amore e morte, e le inversioni fra
queste e le altre coppie appaiono costanti. Abbiamo già visto come Thanatos
si sostituisca a Eros, ma la loro connessione (frequentissima nell’epoca e in
Shakespeare) è ribadita sul filo del paradosso secentesco durante l’estasi (II,
i, 189-193) e naturalmente alla fine (V, ii, 42 e 359-360). Un’inversione
riguarda anche il colore dei personaggi e l’aspetto razziale dell’opera: il nero
Otello è all’inizio campione di bianca onestà, il barbaro si comporta da
perfetto cristiano, mentre il bianco Iago ha l’anima nera (il gioco sui due
colori è uno stereotipo in Shakespeare e nei drammi elisabettiani, ed è qui
usato sia in senso comico − Iago con Desdemona − sia in senso tragico). Alla
fine, come si è visto, Otello ritorna barbaro e nero, neanche uomo (V, ii, 244-
245); l’eroe perde ogni valore e si riduce a «coxcomb». Di contro, appare
tutta la nerezza diabolica di Iago: un’altra − e doppia − inversione, se è vero
che Otello era stato convenzionalmente definito «diavolo» proprio da Iago in
I, i, 91, e come tale è definitivamente bollato da Emilia in V, ii, 132. Il villain
diabolico e machiavellico, prima di rivelarsi tale, ha infatti le vesti dell’onestà.
D’altro canto, l’eroe sviato è forse fin dall’inizio un pusillanime di fronte alla
realtà dell’intimo e dell’amore: ecco allora che la sua forza marziale e la sua
self-dramatization (come per Marcantonio in Antony and Cleopatra) diventano
una maschera e una forma di debolezza. Nella forza dei personaggi, come
spesso nello Shakespeare maturo, si annida la debolezza: ed è perché
pulsioni o paure inconsce, appena rivelate ci distruggono. Penultimo
paradosso: la grande tragedia della menzogna e dell’apparenza che si
sostituisce alla realtà, si attua poi per misere e fortuite coincidenze − fin
troppe. Basterebbe a ogni momento un incontro fra Cassio e Otello, Emilia e