Page 1182 - Shakespeare - Vol. 2
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«celebrazioni del matrimonio» (altri dicono addirittura dell’Establishment
elisabettiano), e trascura del tutto il trattamento spesso scherzoso ma
sempre ironico del tema, attestato in Molto rumore, nel Sogno di una notte di
mezza estate, e in verità dappertutto.
Per Shakespeare, come per i greci, Eros è potenza irrazionale e ambigua, che
possiede la creatura come una malattia o una follia trascinandola in
un’esperienza che esalta o distrugge o ambedue le cose assieme. Il
matrimonio è l’istituzione che controlla la passione erotica − perché di amor
platonico non c’è traccia nella sua realtà, e il petrarchismo vi è sempre messo
in burletta − e la incanala verso esiti legali e comunitari (la famiglia, la
fecondità). Ma che il cantore di Antonio e Cleopatra e di Troilo e Cressida
voglia inviarci un messaggio matrimoniale è una vera «intentional fallacy»,
ché il matrimonio, anche nelle commedie, è esperienza problematica retta
dalla Fortuna, e cosa demitizzata e inconclusiva («indeterminata» come
dicono i nuovi critici inglesi), anche se è scelta come conclusione formale,
come la cadenza in una fuga, e in sé casuale e temporanea, della vicenda
comica. Ma in verità è sempre in nome della «morale del Bardo» che i critici
si lasciano sfuggire il brio ironico e trasgressivo delle «commedie
matrimoniali».
Il Salingar è molto più convincente quando indica la Fortuna classica come
tema cardinale e formativo della visione («È la Fortuna a fare di un play un
play») e quando indica come alla tradizione classica Shakespeare «fu
debitore non solo di episodi e situazioni occasionali, ma della sua concezione
di base della commedia come forma d’arte teatrale che usa intrecci connessi
logicamente... e si appella... al senso d’ironia degli spettatori», cosa che non
avrebbe potuto fornirgli la tradizione medievale. D’altra parte, già nelle prime
prove legate a modelli letterari (La commedia degli errori, I due gentiluomini
di Verona, La bisbetica domata), Shakespeare mostra la sua straordinaria
capacità di armonizzare materiali e moduli di diversa provenienza in nuove
unità insieme «familiari e strane», il dono libero e sincretico di un artista della
scena che evita schemi e teorie colte e si tien piuttosto alle esigenze
immediate, e soprattutto, come sempre i maggiori, alle radici popolari
dell’arte. Ma ciò non significa che non accolga, direttamente oppure dagli
stimoli, dai suggerimenti, dalle conversazioni, dalla cultura orale del suo
entourage, la lezione dei classici che erano nel cuore dell’epoca, e che
guidava il suo istinto a reinventare un teatro di strutture e di personaggi
«aperti», interpretabili in molti modi. Qualità che giunge a piena maturazione
nel primo grande ciclo comico, dal Sogno alla Dodicesima notte, dove il punto