Page 1186 - Shakespeare - Vol. 2
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armonici.  Una  prima  parte  (i  primi  due  atti  e  mezzo)  parrebbe  un  allegro
          vivace, e in essa, col patrocinio principesco, sbocciano le due storie d’amore.
          Poi con un colpo di scena (la calunnia di Don Juan III, ii) s’avvia un agitato
          drammatico che le due storie sconvolge in un crescendo di malintesi, ripulse,

          trame e controtrame e propositi di vendetta. Ma già, intervallando i momenti
          cupi, gli scherzi dei clowns annunciano il rovesciamento (V, i). E l’ultima parte
          è ritmata come un andante con moto che si trasforma in un allegro brioso e si
          conclude con una giga.

          Però l’intreccio complesso si articola in sotto-intrighi, con livelli diversi di stile
          e di gerarchia sociale, e i sotto-intrighi tendono a disporsi in una struttura a
          sfere concentriche, o a scatole cinesi, che ricorda quella ben più elaborata del
          Sogno.  Il  livello  esterno,  appena  abbozzato,  è  quello  delle  presenze

          principesche, Don Pedro e Don Juan, che accenna a essere una cornice ma ha
          anche  funzione  cardinale,  perché  è  l’opposto  intervento  dei  due  Don  a
          muovere  l’azione,  e  a  dare  all’opera  una  sua  implicita  ma  interessante
          dimensione politica: sullo sfondo della commedia, tra i «mondi possibili» che

          lasciano intravedere le sue molte allusioni, c’è infatti il mondo sinistro della
          politica,  il  mondo  del  sospetto  che  il  principe  non  può  allentare  neanche
          durante le sue ferie politiche, un mondo di maschere in cui chi tiene il potere
          dev’essere sempre in allarme, pronto a smascherare gli altri. La trascuratezza

          di Don Pedro, che permette il complotto del suo fratello bastardo, e quindi
          l’aggrovigliarsi del nodo principale dell’azione, non è la minore delle sue colpe
          per errore. Il secondo livello comprende, sotto la «regia» del Principe, le due
          vicende a chiasmo delle due coppie giovanili, integrate dal «much ado», dal

          grande agitarsi dei familiari coinvolti prima nel lieto favorire le unioni, poi nel
          complotto  malefico  e  nella  riscossa  benigna.  Ma  la  risoluzione  viene
          effettuata sul terzo livello, nel sotto-intrigo comico-farsesco, anche se essa è
          dovuta,  come  dice  il  Leggatt,  «al  macchinario  del  caso  e  della  coincidenza

          messo in moto senza volerlo dai clowns». La verità insomma è ristabilita non
          ad  opera  dei  buffi  sbirri,  né  degli  altri  inconclusi  progetti  di  riscossa,  ma
          grazie  al  gioco  capriccioso  della  Fortuna.  E  la  conciliazione  avviene  sotto
          l’egida  d’un  Principe  che  con  un  simbolico  pentimento  si  riconferma  come

          depositario dei valori e garante di armonia.
          Ma con tutta la sua ricca codificazione e la sua intessitura strutturale, Much
          A do è  una  commedia  breve  e  briosa,  che  scorre  svelta  nel  suo  dialogo
          vivacissimo, nella sua scrittura pienamente parlata e teatrale, nell’alternarsi

          dei suoi motivi, nessuno dei quali è isolabile o ridondante o preponderante,
          con buona pace di chi ha pensato a lungo che la parte da privilegiare fosse la
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