Page 1187 - Shakespeare - Vol. 2
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vicenda di Benedetto e Beatrice. Già Swinburne ammirava la maestria tecnica
          dell’insieme, e in realtà anche gli elementi più secondari, anche le allusioni
          senza seguito − che fan parte di quel mondo come i piccoli e vaghi episodi
          nello sfondo di una pittura − appaiono funzionali, e il tutto è una delle più

          compatte, dinamiche e variegate opere dell’autore: davvero una quintessenza
          della vita, e una macchina teatrale di grande efficacia e maturità, piena di
          quel  sale  della  comicità  che  Machiavelli  non  trovava  nelle  commedie
          dell’Ariosto.

          L’opera  è  anzitutto  un  ottimo  esempio  della  commedia  come  «mito  della
          giovinezza» (Northrop Frye). In primo piano sono i giovani − a cominciare dai
          giovani  «Don»  della  cornice  −  i  giovani  che  sono  vere  creature  della
          «mutabilità», gran tema elisabettiano: i giovani ricchi con la loro vita intensa

          e pelle pelle, i giochi e gli scherzi, il riso sempre in bocca magari per cedere
          di colpo alla smorfia di dolore, gli entusiasmi facili e la facilità all’eccesso, gli
          errori e gli egoismi, le arroganze e le crudeltà, le pretese di originalità che
          sono magari nuovi convenzionalismi, le sventatezze e la fragilità dei propositi

          ma  anche  la  disponibilità  al  sacrificio  o  alla  dedizione,  l’avidità  lupesca  di
          possesso  nella  caccia  alla  Fortuna  che,  femmina,  li  adesca  e  fugge  per  i
          labirinti del Caso. La morale di Benedetto, che «l’uomo è una bestia volubile»
          (V, iv, 106), è l’unica ovvia morale della storia e vale anzitutto per l’amico

          Claudio, che è passionale, egocentrico, smodato, e inviso ai critici moralisti
          per le sue azioni abiette, come se il giovane amoroso di una commedia debba
          esser per forza una figura positiva, e come se abbia un senso cercar la morale
          nelle  commedie  di  Shakespeare,  che  segna  l’ingresso  del  teatro  nella

          modernità  anche  per  l’abbandono  della  ricerca  ossessiva  di  una  morale  in
          ogni atto e aspetto dell’esistenza. In effetti Claudio e Benedetto, opposti per
          carattere, hanno in comune il loro essere cortigiani e uomini d’arme, senza
          seri  interessi  intellettuali,  attenti  alle  proprie  esigenze  pratiche  e  a  quelle

          fisiche dei loro giovani corpi, e diretti con ogni evidenza nel loro agire non da
          moventi  spirituali  ma  dalle  convenzioni  del  loro  grado  e  tempo:  la  fede
          giurata a un principe straniero, il rispetto gerarchico e il senso cavalleresco
          dei doveri del rango, il decoro e il pundonor. Il contrasto è naturalmente tra

          la  passionalità  e  la  brutalità  potenziale  di  Claudio  −  assecondate  dalla
          femminilità passiva di Ero − e la naturale ironia e lo humour di Benedetto,
          che trova anche lui una partner ben adeguata nella giovane Beatrice, tutta
          concretezza spigliata e angolosa.

          La  commedia  mette  subito  in  chiaro  che  sotto  la  superficie  mordente  e
          aggressiva  di  quest’ultima  riuscitissima  coppia,  col  suo  cerebrale  rifiuto
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