Page 80 - Nietzsche - Su verità e menzogna
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avrebbe conferito al suo genio quello slancio sublime. Quando Pericle, come pubblico oratore,
stava davanti al suo popolo nella bella rigidità e immobilità di un marmoreo dio dell’Olimpo e
quando quieto, avvolto nel suo mantello, sempre nelle stesse vesti, senza alcun cambiamento
nell’espressione del volto, senza sorridere, sempre con il medesimo, potente tono di voce, –
dunque in maniera assolutamente diversa da Demostene, alla maniera periclea, appunto –
parlava, tuonava, fulminava, annientava e salvava, allora egli era la sintesi del cosmo
anassagoreo, l’immagine del nous che si è costruito l’abitazione più bella e degna; era, per così
dire, l’incarnazione visibile della forza dello spirito che, artisticamente indeterminata,
costruisce, muove, espelle, ordina, supervisiona. Lo stesso Anassagora ha detto che l’uomo
deve essere l’essere più razionale, ossia deve ospitare dentro di sé il nous in misura maggiore
di tutti gli altri esseri, già per il fatto di possedere organi meravigliosi come le mani. Egli trae
dunque la conclusione che quel nous, a seconda delle dimensioni e della massa con cui si
impadronisce di un corpo materiale, si costruisca con questa materia gli strumenti che sempre
corrispondono al proprio grado quantitativo e che quindi si costruisca gli strumenti più belli e
rispondenti a un fine quando appare in tutta la sua pienezza. E come l’azione del nous più
meravigliosa e rispondente a un fine doveva essere quel movimento circolare originario, perché
allora lo spirito era ancora indiviso e raccolto in se stesso, così l’effetto del discorso di Pericle
appariva ad Anassagora, che spesso vi prestava ascolto, un’immagine simbolica di quel
movimento circolare originario. Difatti, anche in questo caso egli avvertiva innanzitutto un
vortice di pensiero che si muoveva con forza spaventosa ma ordinatamente e che, con cerchi
concentrici progressivi, afferrava e trascinava le persone più vicine come quelle più lontane.
Una volta giunto alla fine, ordinando e dividendo, esso aveva dato una forma nuova all’intero
popolo.
Per i filosofi più tardi dell’antichità, il modo in cui Anassagora fece uso del suo nous per
spiegare il mondo era bizzarro, anzi difficilmente perdonabile. Essi avevano come
l’impressione che Anassagora avesse scoperto un formidabile strumento, ma non l’avesse però
compreso correttamente, e cercarono quindi di recuperare quanto era sfuggito al suo scopritore.
Essi non riconobbero dunque il significato dell’abnegazione, ispirata dal più puro spirito del
metodo scientifico, con la quale Anassagora, in ogni circostanza, si poneva innanzitutto il
problema di scoprire ciò mediante cui una cosa è (causa efficiens) e non per quale ragione una
cosa sia (causa finalis). Il nous è stato chiamato in causa da Anassagora unicamente per
rispondere alla specifica domanda: «mediante cosa sorge il movimento e mediante cosa sorgono
movimenti regolari?». Platone gli rimprovera tuttavia di non aver mostrato, come invece
avrebbe dovuto fare, che il modo e il luogo in cui ogni cosa esiste sono i più belli, eccellenti e
conformi a fini. Ma in nessun singolo caso Anassagora avrebbe osato pensare questo: difatti per
lui il mondo presente non era affatto il più perfetto che si potesse immaginare; egli vedeva ogni
cosa sorgere da ogni altra e trovava che la separazione delle sostanze ad opera del nous non
fosse compiuta e conclusa né alla fine dello spazio riempito nel mondo, né negli esseri singoli.
Per la sua conoscenza era perfettamente sufficiente aver scoperto un movimento che, nel
semplice proseguimento della sua azione, può creare un ordine visibile dal caos di un’assoluta
mescolanza. Egli si guardò bene dal porre la domanda sulla ragione in vista di cui il movimento