Page 31 - Nietzsche - Su verità e menzogna
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primi della filosofia e della scienza. Essi piuttosto si dedicarono con tale energia a
perfezionare, incrementare, innalzare e purificare questi elementi assunti dall’esterno, da
diventare così scopritori in un senso più alto e in una sfera più pura. Essi scoprirono infatti le
menti filosofiche tipiche e tutta la posterità non ha scoperto null’altro di essenziale da potervi
aggiungere.
Ogni popolo ha di che vergognarsi quando si fa riferimento ad una società filosofica così
meravigliosamente idealizzata quale fu quella degli antichi maestri greci Talete, Anassimandro,
Eraclito, Parmenide, Anassagora, Empedocle, Democrito e Socrate. Questi sono uomini tutti
d’un pezzo, scolpiti in un unico blocco di pietra. Tra il loro pensiero e il loro carattere vige un
rapporto di stretta necessità. Essi mancavano di ogni convenzionalità, in quanto al tempo non
v’era uno status specifico per il filosofo e il dotto. Tutti loro si collocano in una grandiosa
solitudine perché erano i soli, al tempo, che vivessero unicamente per la conoscenza. Tutti loro
possiedono la virtuosa energia con la quale gli antichi superarono tutti quelli venuti in seguito:
l’energia di trovare la forma loro peculiare e di continuare metamorficamente a riprodurla nelle
cose più piccole come in quelle più grandi. Nessuna moda, infatti, veniva loro incontro per
aiutarli e facilitarli. Nell’insieme essi costituiscono così quella che Schopenhauer ha chiamato,
di contro alla repubblica dei dotti, repubblica dei geniali: un gigante chiama l’altro attraverso le
lande desolate delle epoche che li separano e l’alto colloquio spirituale prosegue senza essere
affatto disturbato dai nani chiassosi che strisciano via sotto di loro.
Di questo alto colloquio spirituale mi sono proposto di raccontare soltanto ciò che la nostra
epoca moderna, dura d’orecchio, può in qualche modo udire e comprendere, vale a dire soltanto
una minima parte. Mi sembra tuttavia che quei saggi antichi che vanno da Talete a Socrate
abbiano trattato, sebbene nella sua forma più generale, ciò che di questo colloquio rappresenta
ai nostri occhi l’elemento specificamente ellenico. Nel loro colloquio, come già nelle loro
personalità, essi esprimono quei grandi tratti del genio greco di cui l’intera storia greca non è
che l’impronta simile a un’ombra, la copia sfuocata e confusa. Se anche interpretassimo
correttamente tutta quanta la vita del popolo greco, la troveremmo tuttavia sempre e soltanto un
riflesso di quell’immagine che, nei più grandi genii di questo popolo, risplende con tinte più
luminose. La prima esperienza di filosofia sul suolo greco, vale a dire la sanzione dei Sette
Sapienti, apporta così un tratto chiaro e indimenticabile all’immagine della grecità. Altri popoli
hanno i santi, i Greci hanno i Sapienti. Con ragione si è detto che un popolo viene caratterizzato
non tanto dai suoi grandi uomini, quanto piuttosto dal modo in cui li riconosce e li onora. In altre
epoche il filosofo è un viandante solitario e casuale che si introduce di soppiatto o si fa largo a
pugni serrati nel più ostile degli ambienti. Soltanto presso i Greci il filosofo non è casuale:
quando nel sesto e nel quinto secolo questi appare tra gli immani pericoli e le seduzioni della
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secolarizzazione, uscendo per così dire dalla caverna di Trofonio e situandosi nel bel mezzo
dell’opulenza, della felicità propria agli scopritori, nel pieno della ricchezza e della sensualità
delle colonie greche, allora intuiamo che, quale nobile ammonitore, egli giunge allo stesso
scopo per cui, in quei secoli, sorse anche la tragedia, scopo che i misteri orfici danno ad
intendere con i grotteschi geroglifici delle loro pratiche. Il giudizio di quei filosofi sulla vita e
sull’esistenza in generale possiede un significato assai più ampio di quello che può avere un