Page 17 - Nietzsche - Su verità e menzogna
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vanità, è a tal punto regola e legge che quasi nulla è più inconcepibile di come, tra gli uomini,
potesse sorgere un onesto e puro impulso alla verità. Essi sono profondamente immersi in
illusioni e immagini di sogno, il loro occhio scivola soltanto sulla superficie delle cose e vede
«forme», i loro sensi giammai conducono alla verità, bensì si limitano a ricevere stimoli e, per
così dire, a giocare a moscacieca sul dorso delle cose. Inoltre, durante la notte l’uomo si lascia
ingannare nel sogno, per tutta la vita, senza che il suo sentimento morale cerchi mai d’impedirlo:
mentre devono esserci uomini che, con forte volere, abbiano dileguato il sonno. Cosa
propriamente sa l’uomo su se stesso?! Egli è forse in grado, anche solo per una volta, di
percepirsi integralmente, come se si trovasse in una vetrina illuminata? La natura non gli tace
forse la maggior parte delle cose, perfino sul suo stesso corpo, per irretirlo e rinchiuderlo in
un’orgogliosa ingannevole coscienza, lontano dai meandri delle viscere, dal rapido scorrere del
flusso sanguigno, dagli intricati sussulti delle fibre? La natura gettò via la chiave: e guai alla
fatale curiosità che, attraverso una crepa della stanza della coscienza, riesca un giorno a
guardare fuori e in basso, presentendo allora che l’uomo, nell’inconsapevolezza del suo non
sapere, poggia su qualcosa di spietato, avido, insaziabile, terribile, e che nei suoi sogni è
sospeso per così dire sul dorso di una tigre. In questa costellazione, dove nel mondo potrà mai
sorgere l’impulso alla verità?!
Dato che l’individuo, di fronte ad altri individui, vuole conservarsi, in uno stato naturale di
cose egli per lo più usa l’intelletto unicamente per fingere: ma poiché l’uomo, per necessità e
allo stesso tempo per noia, vuole esistere socialmente e nel modo del gregge, ha bisogno di un
trattato di pace e mira a far scomparire dal suo mondo quantomeno la più rozza bellum omnium
contra omnes. Ma questo trattato di pace porta con sé qualcosa che pare il primo passo verso il
conseguimento del misterioso impulso alla verità. A questo punto viene infatti stabilito ciò che
d’ora in avanti dovrà essere «verità», cioè viene inventata una designazione delle cose
universalmente valida e vincolante. Dunque la legislazione del linguaggio fornisce anche le
prime leggi della verità: è qui che sorge per la prima volta il contrasto tra verità e menzogna. Il
mentitore si serve delle designazioni valide, le parole, per fare apparire reale ciò che non lo è.
Egli dice, ad esempio: «sono ricco», mentre per questa condizione la designazione corretta
sarebbe, per l’esattezza, «povero». Egli fa un cattivo uso delle convenzioni fissate scambiando
arbitrariamente i nomi o addirittura invertendoli. Se fa questo per interesse personale e oltre
tutto arrecando danno, la società non si fiderà più di lui e in questo modo lo escluderà da sé.
Con questo comportamento gli uomini cercano di evitare non tanto l’essere ingannati, quanto
l’essere danneggiati attraverso l’inganno. Anche a questo livello essi in fondo non odiano
l’illusione, bensì le conseguenze brutte e nocive di certe specie di illusioni. Anche la verità è
voluta dall’uomo unicamente in un senso tanto limitato. Della verità l’uomo brama le
conseguenze piacevoli, che conservano la vita; è invece indifferente verso la conoscenza pura,
priva di conseguenze, e addirittura ostile verso le verità che possono risultare dannose e
distruttive. E inoltre, come stanno le cose riguardo alle summenzionate convenzioni del
linguaggio? Sono forse prodotti della conoscenza, del senso della verità? C’è corrispondenza
tra le cose e le loro designazioni? È il linguaggio espressione adeguata di ogni realtà?
Soltanto attraverso la dimenticanza l’uomo può giungere a credere di possedere una verità nel