Page 107 - Nietzsche - Genealogia della morale
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chiediamocelo col maggior rigore possibile, ha sconfitto in verità, il dio cristiano? La
risposta si trova nella mia «Gaia scienza», p. 290: «La stessa moralità cristiana, il concetto di
veridicità assunto in un senso sempre più rigoroso, la finezza da padri confessori della
coscienza cristiana, tradotta e sublimata nella coscienza scientifica, nella pulizia intellettuale a
ogni prezzo. osservare la natura, come se fosse una prova della bontà e della protezione di un
dio; interpretare la storia in onore di una ragione divina, come testimonianza costante di un
ordinamento etico del mondo e di conclusive intenzioni etiche; interpretare le proprie
esperienze intime come abbastanza a lungo le hanno interpretate uomini devoti, come se tutto
fosse un ordinamento, tutto fosse un cenno, tutto fosse escogitato e predisposto per amore e per
la salvezza dell’anima: tutto ciò è ormai già passato, ha la coscienza contro di sé, per tutte le
coscienze più affinate è considerato sconveniente, disonesto, mendacità, roba da femmine,
debolezza e codardia; in virtù di questo rigore, se non altro, noi siamo precisamente buoni
Europei ed eredi del più lungo e valoroso autooltrepassamento dell’Europa»... Tutte le cose
grandi si annientano da sole, con un atto di autoeliminazione: così vuole la legge di natura, la
legge del necessario «autooltrepassamento» nell’essenza della vita – il grido: «Patere legem,
quam ipse tulisti» finisce sempre per arrivare allo stesso legislatore. Così è crollato il
cristianesimo come dogma, a causa della sua stessa morale; così anche il cristianesimo come
morale deve ancora andare in rovina – noi siamo alle porte di questo avvenimento. Avendo la
veridicità cristiana tirato una conclusione dopo l’altra, dedurrà alla fine anche la sua
conclusione più radicale, quella contro se stessa; ma questo accade quando essa si chiede
«Che cosa significa ogni volontà di verità?»... E a questo punto tocco ancora una volta il mio
problema, i nostri problemi, amici miei ignoti (– dato che ancora non so di nessun amico):
quale altro senso avrebbe mai tutto il nostro essere, se non quello che in noi quella volontà di
verità sarebbe diventata cosciente di sé come problema?... Grazie a questo prendere
coscienza-di-sé della volontà di verità, la morale – non v’è alcun dubbio – finirà per andare
progressivamente in rovina: quel grande spettacolo in cento atti, tenuto in serbo per i due
secoli europei prossimi venturi, il più tremendo, il più problematico e forse anche il più
fecondo di speranza di tutti gli spettacoli...
28.
Se si prescinde dall’ideale ascetico, l’uomo, l’animale uomo non ha avuto, sino ad oggi,
nessun senso. La sua esistenza sulla terra non ha avuto in sé nessun fine; «a che scopo dunque
l’uomo?» – è stata una domanda senza risposta; la volontà per uomo e terra mancava; dietro
ogni grande destino umano risuonava, come refrain, un ancora più grande «invano!». L’ideale
ascetico significa proprio questo: che qualcosa mancava, che l’uomo era circondato da un
enorme vuoto – egli non sapeva giustificare, spiegare, affermare se stesso, soffriva del
problema del suo significato – Soffriva comunque, anzi era, in primo luogo, un animale
valetudinario: ma non la sofferenza in sé era il suo problema, sebbene, il fatto che non ci
fosse risposta per il grido: «a che scopo soffrire?». L’uomo, l’animale più coraggioso e più
assuefatto al dolore, non nega in sé la sofferenza; la vuole, la va persino a cercare, sempreché
gli si mostri un significato della sofferenza stessa, un «perché» del soffrire. L’assurdità della
sofferenza, non la sofferenza, è stata la maledizione che ha gravato sino ad oggi sull’umanità –
e l’ideale ascetico le conferì un senso! Sino ad oggi è stato l’unico senso; un senso qualsiasi