Page 89 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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«Appena ci si distrae o ci si sente al sicuro, il proiettile arriva.»
La cosa crudele, alla guerra, è che di solito si viene colpiti nell’attimo stesso in cui
ci si illude d’avercela fatta. Finché si sta all’erta o ci si espone al rischio avanzando
a testa scoperta nel fuoco, non accade nulla; appena ci si distrae o ci si sente al
sicuro, il proiettile arriva. Magari una piccola scheggia che lì per lì sembra inviata
dal cielo per regalarti la buona ferita, la ferita leggera che consente il ritorno a casa
o nelle retrovie, poi invece si rivela mortale perché ha reciso un’arteria o s’è
conficcata nel cuore. Anche quel giorno avvenne così. Il primo proiettile del resto lo
aspettavo, era il momento in cui ci saremmo rivisti al mattino, e lo scansai con
facilità quando incontrandoci nel corridoio ci irrigidimmo entrambi come due gatti in
procinto di battersi: «Kalimera, buongiorno». Quanto alle fucilate che esplosero
dopo, una pressione della tua spalla sulla mia spalla, un tocco del tuo braccio sul
mio braccio, contatti fuggevoli eppure allarmanti, ne uscii sempre indenne. Non era
lì il rischio mortale. Era nella parola, la frase, che volevi dirmi e che non volevo
ascoltare. Per impedirtelo infatti mi rifugiavo negli altri, nella gente che via via
capitava, un giornalista ad esempio o un fotografo, e se malgrado ciò succedeva che
restassimo soli qualche minuto, scendevo in trincea distraendoti con domande a
bruciapelo: hai-mai-letto-Proudhon, hai-mai-letto-Bakunin, sei-mai-stato-marxista.
Né vale chiedersi perché, invece di ricorrere a simili trucchi, non me ne andavo via.
Il mio volo decollava alle sette, non concepivo nemmeno l’idea di lasciarti un attimo
prima del necessario, e l’attesa di quell’ora mi riempiva di tristezza: ogni volta che
rombava un aereo il mio cuore si torceva e dovevo fare uno sforzo per non venirti
vicino. È questa la parabola di un grande amore che finirà male? Verso l’una venne
Andrea, poi un paio di amici che invitasti a mangiare, ti lanciasti con loro in una
disputa che mi escludeva perché si svolgeva nella tua lingua e ciò allentò la tensione.
Cominciai a dirmi ovvio che un uomo rimasto per anni in prigione si senta attratto da
una donna che lo ammira e che lo capisce, ovvio che sia tentato di entrare nella sua
stanza per levarsi una fame troppo a lungo sofferta: in tutto questo che c’entrava
l’amore, il dolore, la minaccia cioè di un legame pericoloso e profondo? Avevo
interpretato con troppa sensibilità episodi in fondo banali, domani quelle
ventiquattr’ore mi sarebbero apparse in una luce diversa, e il buon Andrea non era
Cassandra. Quindi mi alzai e scesi in giardino a congratularmi per un ritrovato
benessere. Le tre e mezzo del pomeriggio. Sugli olivi del marciapiede le cicale
frinivano acute ma una bava di vento alleggeriva il respiro. Mi appoggiai alla palma,