Page 90 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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accesi una sigaretta gettando un’occhiata divertita al mazzo di agli. Poi sollevai lo
sguardo e ti vidi.
Avanzavi nel sole ed eri così pallido che la cicatrice allo zigomo spiccava più
rossa d’una ciliegia matura. Avanzavi fissandomi duro, e il tuo passo aveva la stessa
cadenza dell’andirivieni notturno. Uno, due. Uno, due. Uno, due. Giunto dinanzi a me
ti fermasti, senza dir nulla, mi agguantasti per un polso, senza dir nulla, mi
riconducesti in casa, senza dir nulla, mi spingesti nella tua camerina ed ebbi appena
il tempo di scorgere lo sguardo spaventato di Andrea che l’uscio fu chiuso.
«Parliamo. Accomodati.» Mi indicasti una sedia, sedesti sul letto, incrociasti le
braccia: «Tu non parti». «Non parto?!» «No. Non parti.» «E perché non dovrei,
Alekos?» «Perché io non voglio. E se io non voglio, non voglio.» «Ascoltami,
Alekos. Io ho finito quel che ero venuta a fare. Non c’è motivo che resti.» «Finito
cosa?» «L’intervista, il lavoro. Ero qui per un’intervista, un lavoro, ricordi? E l’ho
fatto.» «Tu non eri qui per un’intervista, tu eri qui per me. Sei qui per me.» «Per te
come per gli altri su cui ho scritto in Bolivia, in Vietnam, in Brasile.» «Bugiarda.»
«Ascoltami, Alekos…» Bisognava tentare un richiamo al buon senso, impugnare
l’arma del raziocinio, rivolgersi all’uomo che ventiquattr’ore prima mi aveva parlato
con distacco delle sue sofferenze, fumando la pipa in lunghe boccate da vecchio.
«Ascoltami, Alekos. Io non vado cercando avventure e…» «Neanche io.» «Stare
dalla stessa parte della barricata con le idee e i sentimenti non basta per essere
qualcosa di più che amici, compagni, e…» «Lo so.» «Non parlo neanche la tua
lingua e…» «Non importa.» «Abito in un altro Paese e…» «Non importa.» «Non
potrei, non posso, cambiare la mia vita per…» «Non importa!» «Importa, invece.
Tutte queste cose importano, e credo che te le avrei dette stanotte se tu fossi entrato.»
Vibrasti un impercettibile scatto, quasi ti avesse bucato uno spillo. «Ti ho visto
stanotte, Alekos. E ho sperato che tu non entrassi perché…» «Perché non hai
coraggio!» Saltai in piedi, offesa. Forse non avevo coraggio, risposi, ma non avevo
neanche bisogno di te perché non avevo bisogno del dolore che era in te. Non ero
superstiziosa, ero una donna evoluta, però di istinto sapevo che approfondire il mio
incontro con te mi avrebbe dato solo dolore. Sì, avevo paura di te. Di te, non di
venire a letto con te. E qui giocai la mia carta: «Vuoi venire a letto con me? Se è
questo che vuoi, andiamoci subito. Perché stasera parto». «Come hai detto?» «Ho
detto: se vuoi venire a letto con me, andiamoci subito. Perché stasera parto.»
Lentamente la smorfia di incredulità divenne un’espressione di rabbia irreprimibile.
Il tuo petto si dilatò: «Ma io ti amo!».
Quel grido rauco, rabbioso da belva ferita e umiliata. Quel guizzo selvaggio,
quelle braccia tese che mi ghermivano e mi scuotevano e infine mi chiudevano dentro
una morsa di ferro. Quell’alito caldo, quella bocca avida. E quegli occhi, quegli
incredibili occhi nei quali avevo visto la luce d’un bosco che brucia. Per un istante
brevissimo fui sul punto di chiederti scusa, riconoscere che anch’io, sebbene non lo
volessi, ti amavo. Ma poi incontrai quegli occhi e un terrore mi trattenne: perché
c’era la morte in quegli occhi. Per quanto irrazionale e forzato possa apparire, io ti
dico che c’era la morte in quegli occhi, l’annuncio di tutto ciò che sarebbe successo