Page 38 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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occhi sono intelligenti, le sue maniere civili: nessuno capisce come possa
          andare  d’accordo  con  Clay  che  egli  allena  dal  1960,  quando  glielo

          a darono gli undici bianchi di Louisville che l’hanno sotto contratto e lui
          accettò a condizione che gli allenamenti si svolgessero sempre a Miami.
          Chiedo a Dundee cosa ne pensi di Cassius Clay e per prima cosa risponde
          che a chiamarlo Clay ci si mette nei guai, bisogna chiamarlo Mohammed
          Alì,  il  nome  che  ha  scritto  sulle  mutande  da  combattimento  e  sul

          passaporto.  Oppure  Champ,  abbreviativo  di  Champion,  campione.  Per
          seconda cosa mi dice, prudente, che è bravo sul serio e può esser scon tto
          solo  da  se  stesso.  Per  terza  cosa  mi  dice  di  non  chiedergli  altro  perché

          vuole vivere in pace e più a lungo possibile, chiaro? Quando lo conobbe,
          Cassius-Mohammed  era  un  devoto  battista  e  aveva  un  fratello  di  nome
          Rodolfo  Valentino:  ora  Rodolfo  Valentino  s’è  convertito  anche  lui
          all’islamismo e si chiama Ragmad. Chiaro? Chiaro.
             Rodolfo  Valentino-Ragmad  fa  il  pugile  come  Cassius-Mohammed  e

          Cassius-Mohammed  tentò  di  lanciarlo  allenandosi  con  lui  a  Las  Vegas
          prima dell’incontro con Patterson. Il risultato fu che gli ci vollero dodici
          round per battere Patterson ed ora si allena, per venti dollari al giorno,

          con pugili veri come James Ellis o Willi Johnson o Chip Johnson. Sono i
          tre  negri  in  palestra:  ventisei,  ventitré  e  ventidue  anni.  Mi  avvicino  a
          Chip Johnson, un gigante coi denti d’oro, e gli chiedo che tipo è Cassius
          Clay.  «Un  pazzo»  risponde.  «Parola  mia  quello  è  pazzo.  Giorni  fa  mi
          scappò un pugno pesante e lo misi knock out. Bè, si inferocì tanto che non

          voleva darmi i venti dollari e voleva licenziarmi. Non ha senso sportivo.»
          Poi,  intimidito,  zittisce:  è  arrivato  il  campione  con  la  sua  scorta.  Il
          campione è altissimo e tondo, con tonde braccia, tondo sedere, e tondo

          viso color ca elatte ma chiaro. Dimostra assai meno dei ventiquattr’anni
          che ha e non risponde ai saluti. Quando mi presento mi volta le spalle e
          in  tal  posizione  mi  allunga  una  mano  immensa,  dalle  nocche  rosa  e
          spellate. La allunga come se dovessi baciarla e mi pare che resti un po’
          male quando la raccatto per stringerla e basta. Dopodiché va a spogliarsi

          e torna indossando le mutande di raso. In mutande è meglio, malgrado
          resti  tondo,  ed  è  evidente  che  si  piace  molto.  Si  mette  dinanzi  a  uno
          specchio, si guarda torcendosi tutto, schiocca la lingua e mormora: «Ah!

             Oh!».
             Una  voce  alle  mie  spalle  commenta:  «Diventa  ogni  giorno  più
          insopportabile».  Non  voglio  partire  dal  presupposto  che  sia
          insopportabile, voglio fare un’intervista gentile, non dimenticando che, se
          fossi  un  pugile  negro  nato  a  Louisville,  semianalfabeta,  non  mi

          comporterei molto meglio. Che magari sarei mussulmano. Qualcuno m’ha
          esposto  una  tesi  interessante  sul  fatto  che  egli  sia  mussulmano:  il
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