Page 319 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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petrolio. A volte per difendermi dovevo dire no, non sono saudita, sono
          afghano.  Sono  nato  a  Kabul,  il  mio  nome  è  Ibrahim  e  mio  padre  fa  il

          pecoraio.  Con  gli  studenti  iracheni  invece  mi  sentivo  bene,  andavo
          d’accordo. Non dovevamo farla questa guerra, no. Non è nemmeno una
          guerra, è uno show televisivo per far guadagnare il padrone della CNN:
          quel Turner che va con Jane Fonda. Lo sa quanto costavano, prima della
          guerra,  trenta  secondi  di  pubblicità  alla  CNN?  Cinquemila  dollari.  E  sa

          quanto costano ora? Ventimila dollari.
             Le sembra giusto che gli iracheni muoiano per far guadagnare soldi al
          boy friend di Jane Fonda?»

             «Mi ascolti bene perché questo discorso riguarda tutti gli occidentali: io
          all’idea di appartenere a un paese che ha chiamato gli americani e con gli
          americani voi europei, mi sento un traditore. E il mio mullah ha ragione a
          dire  che  tutti  gli  arabi  che  stanno  da  questa  parte  della  barricata
          dovrebbero sentirsi traditori. Kuwaitiani compresi.» «Il suo mullah?» «Sì, il

          mullah. È stato lui a spiegarmi ciò che non avevo capito.»
             Eh, sì: nessuno ne parla perché chi se n’è accorto ritiene che sia meglio
          non  toccar  l’argomento,  non  svegliare  la  tigre  che  dorme.  Ma  c’è  una

          guerra  dentro  la  guerra,  quaggiù.  Una  guerra  invisibile,  intangibile,
          imprevista, e in un certo senso più terrorizzante di quella che avviene coi
          bombardieri,  i  cannoni,  i  carri  armati,  le  navi,  gli  Scud:  quella  che,
          attraverso  un  risorto  antiamericanismo,  a  poco  a  poco  schiera  i  sauditi
          contro gli occidentali. La guidano i mullah dei quartieri periferici e delle

          moschee meno importanti, cioè i preti estranei all’oligarchia religiosa che
          assieme  ai  cinquemila  principi  della  famiglia  reale  domina  il  paese.  La
          sostengono gli intellettuali e i borghesi come i tre che ho chiamato Khalid,

          Rashid,  Tarik,  la  appoggiano  per no  alcuni  membri  dell’establishment
          economico-culturale.
             E  sebbene  cresca  in  sordina,  silenziosamente,  cautissimamente,
          s’avverte  in  ogni  strato  della  popolazione.  Lo  dimostra  il  cameriere  che
          con malcelata ostilità ti versa il ca è nella tazza, il tassista che con mal

          repressa antipatia t’accompagna all’albergo, la ragazza in chador che nel
          rifugio ti lancia uno sguardo ostile, il soldato in tuta mimetica che quasi
          con  rabbia  ti  esamina  il  lasciapassare,  e  addirittura  lo  sceicco  che  con

          falsa gentilezza t’ha invitato a bere il tè. Non a caso i volantini contro gli
          americani e i loro alleati incominciano a girare per le città. Coi volantini,
          le cassette sul cui nastro i mullah hanno inciso le loro proteste e le loro
          maledizioni.
             «Sono  cassette  identiche  alle  cassette  che  durante  il  regno  dello  scià

          giravano  a  Teheran,  a  Tabriz,  a  Isfahan,  a  Shiraz»  spiega  colui  che  ho
          chiamato  Khalid  «e  per  ora  vengono  distribuite  di  nascosto  o  vendute
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