Page 51 - Canti di Castelvecchio
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II
              l'ulivo che a gli uomini appresti
            la bacca ch'è cibo e ch'è luce,
            gremita, che alcuna ne resti
                   pel tordo sassello;
              l'ulivo che ombreggi d'un glauco
            pallore la rupe già truce,
            dov'erri la pecora, e rauco
                   la chiami l'agnello;
              l'ulivo che dia le vermene
            pel figlio dell'uomo, che viene
                   sul mite asinello.

            III
              Portate il piccone; rimanga
            l'aratro nell'ozio dell'aie.
            Respinge il marrello e la vanga
                   lo sterile clivo.
              Il clivo che ripido sale,
            biancheggia di sassi e di ghiaie;
            lo assordano l'ebbre cicale
                   col grido solivo.
              Qui radichi e cresca! Non vuole,
            per crescere, ch'aria, che sole,
                   che tempo, l'ulivo!

            IV
              Nei massi le barbe, e nel cielo
            le piccole foglie d'argento!
            Serbate a più gracile stelo
                   più soffici zolle!
              Tra i massi s'avvinchia, e non cede,
            se i massi non cedono, al vento.
            Lì, soffre, ma cresce, né chiede
                   più ciò che non volle.
              L'ulivo che soffre ma bea,
            che ciò ch'è più duro, ciò crea
                   che scorre più molle.

            V
              Per sé, c'è chi semina i biondi
            solleciti grani cui copra
            la neve del verno e cui mondi
                   lo zefiro estivo.
              Per sé, c'è chi pianta l'alloro
            che presto l'ombreggi e che sopra
            lui regni, al sussurro canoro
                   del labile rivo.
              Non male. Noi mèsse pei figli,
            noi, ombra pei figli de' figli,


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