Page 10 - La passione di Artemisia
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collaboratore di mio padre. Il mio stupratore. Era appoggiato sul gomito e

          non si mosse quando mi sedetti. I capelli neri e la barba gli erano cresciuti
          parecchio e avevano un che di selvaggio.
               Il viso, più bello di quanto meritasse, aveva il colore e la durezza di una

          scultura di bronzo.
               Dietro un tavolo, il notaio papale, un ometto avvolto di rosso porpora
          scuro,  stava  facendo  la  punta  alla  penna  d'oca  con  un  coltello,  lasciando
          cadere a terra i trucioli. Sulle mani gli pioveva un raggio di luce polverosa,
          che  veniva  da  un'alta  finestra  e  gli  illuminava  le  pieghe  della  manica,

          tingendole  di  lavanda.  «Quattordici,  maggio,  1612»,  borbottò  scrivendo.
          Due  mesi,  e  questo  era  il  primo  giorno  che  non  gli  vedevo  sulla  faccia
          un'espressione annoiata. Il giorno in cui sarei stata vendicata. Mi premetti

          le mani contro le costole.
               Entrò  d'un  tratto  l'Illustrissimo                  Signore       Hieronimo         Felicio,
          luogotenente  di  Roma,  nominato  giudice  e  inquisitore  da  Sua  Santità.  Si
          sedette  su  un  alto  scranno,  sistemandosi  la  veste  scarlatta  in  modo  da
          apparire più imponente.

               I funzionari papali assumevano sempre delle pose teatrali in pubblico.
          Sotto il berretto di seta, le guance erano cadenti come frutti troppo maturi.
          Era seguito da un omone dalla testa rasata. Le spalle gli scoppiavano dalla

          tunica di pelle senza maniche. Era l'"assistente" di tortura.
               Fui invasa da un'ondata rovente di terrore. Con un cenno del dito, l'alto
          luogotenente gli ordinò di tirare una tenda leggera attraverso la stanza, che
          ci avrebbe separati da papà e dalla plebaglia che s'accalcava sulle panche. La
          tenda non c'era nelle altre udienze.

               Il  luogotenente  aggrottò  la  fronte  e  le  feroci  sopracciglia  nere  si
          unirono,  formando  come  un'ombra.  «Lei  comprende,  signorina
          Gentileschi,  il  nostro  scopo».  La  voce  era  scivolosa  come  olio  di  semi  di

          lino. «Le Sibille delfiche dicevano sempre la verità».
              Ricordavo la Sibilla delfica sul soffitto della Cappella Sistina.
               Michelangelo  l'aveva  ritratta  come  una  donna  possente,  con  uno
          sguardo  allarmato  per  ciò  che  sta  vedendo.  Papà  e  io  eravamo  rimasti  a
          contemplarla  in  silenzioso  stupore,  stringendoci  le  mani  per  contenere

          l'eccitazione. Forse la sibilla avrebbe dato solo una stretta come quella.
              «Allo  stesso  modo,  la  sibilla  non  è  che  uno  strumento  volto  a  far
          affiorare la verità alla bocca delle donne. Vedremo se persisterà nella sua

          testimonianza».  Strizzò  gli  occhi  caprini.  «Mi  chiedo  che  effetto  potrà
          avere, stringere le corde, sulla capacità di un pittore di tenere in mano un
          pennello nel modo corretto». Avvertii dei crampi allo stomaco.
               Il  luogotenente  si  rivolse  ad  Agostino:  «Anche  voi  siete  un  pittore,
          signor Tassi. Lo sapete che cosa può fare la sibilla alle dita di una giovane?»



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