Page 9 - La passione di Artemisia
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1. La sibilla
Mio padre mi camminava accanto per darmi coraggio e con la mano
sfiorava lieve i pizzi che ornavano le spalle del mio corpetto. La luce
abbagliante, quasi allo zenit, infuocava già le pietre che pavimentavano la
piazza. Sopra Tor di Nona, l'ombra immobile del nodo scorsoio
dell'Inquisizione, il tribunale papale, si proiettava in modo sinistro sul
muro e il suo profilo pareva l'immagine di una lacrima.
«Un disagio di breve durata, Artemisia», disse mio padre, guardando
diritto davanti a sé. «Non più di una piccola strizzatina».
Stava parlando della sibilla.
Se, con le dita strette dalle funi, avessi reso la stessa testimonianza della
settimana precedente, avrebbero compreso che dicevo la verità e il processo
sarebbe terminato. Processo non mio. Continuavo a ripetermi che non ero
io quella sotto processo. Agostino Tassi era sotto processo.
Mi risuonavano nelle orecchie le parole della denunzia che mio padre
aveva sporto presso il papa Paolo V: «Agostino Tassi ha deflorato mia figlia
Artemisia e l'ha forzata a ripetuti atti carnali, dannosi anche per me, Orazio
Gentileschi, pittore e cittadino di Roma, povero querelante, tanto che non
mi è stato possibile ricavare il giusto guadagno dal suo talento di pittrice».
Avrei voluto che nessuno lo sapesse, nemmeno lui. Ma un giorno mi
aveva sentito piangere e mi aveva costretto a confessare. E poi c'era anche
quel dipinto sparito, un dipinto che Agostino aveva ammirato, perciò mio
padre aveva accusato lui.
«Una strizzatina lunga quanto?» gli chiesi.
«Finirà presto».
Non guardai nessuno nella folla che s'era raccolta all'entrata di Tor di
Nona. Sapevo già che cosa avrei letto in quei volti: curiosità malsana,
accusa, disprezzo. Guardai invece il caprifoglio giallo che fioriva contro le
pareti a stucco ocra romano. Ogni colore faceva vibrare di più l'altro. Me lo
aveva insegnato papà.
«Fiori profumati», gridavano i mendicanti, offrendoli alle donne che
erano venute ad assistere all'udienza in quell'aula ammuffita. Pronti a tutto
per un giulio. Uno zoppo mi mise in mano un fiore avvizzito, fetido d'urina.
Sapeva che ero Artemisia Gentileschi. Lo lasciai cadere sul suo ginocchio
deforme.
Quando entrammo nella sala del tribunale, umida e scura, la gola, già
secca, mi si serrò. Lasciai papà nella prima fila di panche e, saliti i due
gradini, mi sedetti al mio solito posto, di fronte ad Agostino Tassi, amico e
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