Page 107 - Francesco tra i lupi
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Maurizio Crozza nell’imitazione di Francesco, che alle sette del mattino avanza lentamente per la via Salaria
    portando in spalla un frigorifero da regalare a una vedova. «Abbiamo fatto bene a svegliarci all’alba – dice il
    papa sotto il peso di settantasei chili – è bello... qual è il portone dove consegnare?». «Il 1321, Santità», risponde
    uno  dei  due  azzimati  segretari  che  non  muovono  un  dito.  «E  dove  siamo?».  «Al  23,  Santità».  Arrivano  a
    chiedere foto e benedizioni una prostituta, gruppi di ciellini e tifosi romanisti, due cardinali. Nessuno gli dà
    una  mano.  La  vedova  rifiuta  il  regalo,  perché  non  le  piace  il  colore.  «Poteva  andare  peggio»,  mormora
    Francesco, avviandosi al ritorno.
      Muoversi  all’interno  di  una  struttura  stratificata  e  ponderosa  come  la  Chiesa  cattolica  è  estremamente
    complicato. Un papa ottiene obbedienza quasi assoluta quando agisce lungo i binari della tradizione. Se invece
    vuole  cambiare  e  riformare,  sono  infiniti  i  modi  grandi  e  piccoli  di  frapporgli  ostacoli.  Giovanni  XXIII
    incontrò  resistenze  aperte  e  sotterranee  al  suo  disegno  riformatore.  Il  monaco-teologo  Enzo  Bianchi
    considera il pontificato di Francesco una «seconda primavera», ma non nasconde la paura che la dinamica
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    possa essere bloccata: «Il Signore mi preservi la visione di una gelata precoce» .
      I  settori  conservatori  puntano  al  logoramento  del  papa  argentino,  fanno  leva  sulla  stanchezza  che  può
    subentrare  al  ripetersi  delle  sue  esortazioni.  Diffondono  il  timore  che  Francesco  stia  costruendo  un’«altra
    Chiesa», uscendo dai binari della tradizione, della dottrina e della retta interpretazione della parola di Dio. «Stai
    sconcertando noi e non sappiamo più dov’è il nostro quartiere e dov’è invece il fronte nemico», gli ha scritto
    Lucrecia  Rego  de  Planas,  ex  direttore  dell’edizione  spagnola  di  «Catholic.net»  in  Messico.  «Io  non  voglio
    pastori con l’odore delle pecore – ha continuato, sfoderando l’aggressività dei tradizionalisti – ma pecore che
    non puzzano di sterco, perché il loro pastore le accudisce e le mantiene sempre pulite».
      I critici all’interno dell’apparato curiale rimproverano a Francesco di creare troppe commissioni e comitati,
    di  muoversi  in  maniera  solitaria,  di  non  concentrarsi  su  pochi  obiettivi,  di  non  esprimere  una  visione
    teologica  strutturata,  di  parlare  troppo,  di  cedere  troppo  ai  gusti  della  folla  lasciandosi  riprendere  con  un
    pappagallo  ammaestrato  o  con  un  bimbo  travestito  da  papa  per  carnevale.  C’è  chi  si  ribella  –  confida  un
    cardinale di curia – all’idea che Francesco sminuisca la «sacralità della persona papale». È uno stillicidio di
    punzecchiature continue e quando Francesco fustiga il chiacchiericcio e la circolazione di calunnie all’interno
    degli  apparati,  pensa  ai  sabotatori  che  parlano  a  bassa  voce.  Sono  loro  ad  augurarsi  che  il  pontificato  passi
    presto. «Vorrei morire da cattolico e spero che Bergoglio lasci al successore la possibilità di fare il papa!», è la
    frase esasperata di un monsignore ostile alle riforme, protetto dall’anonimato.
      Non è da sottovalutare nemmeno l’opposizione inerte di quanti in curia sono incerti per il loro futuro e il
    loro ruolo e sentono vacillare la stabilità dei dettami tradizionali. Le sacche di resistenza silenziosa sono tante.
    Accanto a preti e prelati che ammirano Francesco, c’è chi liquida con disincanto le sue parole, specie sul tema
    della povertà. «In tempo di crisi economica – ammette un sacerdote romano, che lavora con la conferenza
    episcopale italiana – noi siamo diventati di fatto un ceto garantito e questo pone al clero una domanda precisa.
    Fino a che punto ogni prete è disposto a essere coerente, a modellare la sua vita sulla povertà, a recarsi nelle
    periferie?».
      L’interrogativo si può girare anche ai vescovi del mondo: fino a che punto sono pronti a cambiare profilo nel
    momento  in  cui  cambia  la  fisionomia  del  romano  pontefice?  L’ambiente  vaticano  è  il  primo  ad  essere
    investito da queste scosse. Rimodellare e snellire la curia significa in prospettiva una perdita di potere, di
    influenza, di carriera e anche di soldi per un certo ceto burocratico-ecclesiastico, che di questo vive da secoli.
    Non  è  un  caso  che  la  riforma  complessiva  della  curia  stia  richiedendo  tempi  lunghi.  Anche  porporati
    riformatori temono la destabilizzazione della macchina “statale”, che Paolo VI aveva creato e Giovanni Paolo
    II aveva aggiornato.
      Ciò che i fautori della conservazione tendono a rimuovere è che la svolta del conclave del 2013 nasce da una
    crisi profonda di credibilità, in cui era precipitata la Chiesa cattolica. Crisi di comunicazione con la società,
    crisi perdurante delle vocazioni sacerdotali e in anni recenti anche degli ordini femminili, crisi di relazione
    con l’universo delle donne e dei giovani. Un vicolo cieco. Francesco è emerso dopo una stagione tesa che ha
    visto  –  come  descrive  freddamente  l’analista  geopolitico  Lucio  Caracciolo  –  una  Chiesa  chiusa,  «molto
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    romano-curiale e poco universale... retta da una gerarchia introvertita, refrattaria ai segni dei tempi» .  Si
    spiega così quella che il professor Guzmán Carriquiry, segretario della pontificia commissione per l’America
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