Page 243 - Gomorra
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Mario Tamburrino era andato in ospedale con gli occhi gonfi, le orbite sembravano
tuorli d'uovo che le palpebre non contenevano più. Era completamente accecato, le
mani avevano perso il primo strato di epidermide, gli bruciavano come se gli avessero
incendiato benzina sul palmo. Un fusto tossico gli si era aperto vicino al viso, e tanto
era bastato per accecarlo e quasi bruciarlo vivo. Bruciarlo a secco, senza fiamme.
Dopo quell'episodio i camionisti chiedevano di trasportare i fusti nei carichi
dell'autotreno, tenendoli a distanza col rimorchio e non sfiorandoli mai. I più pericolosi
erano i camion che trasportavano il compost adulterato, concime mischiato a veleni.
Solo inalarli avrebbe potuto compromettere per sempre l'apparato respiratorio.
L'ultimo passaggio, quando i Tir dovevano scaricare i fusti in alcuni camioncini che li
avrebbero traghettati direttamente nella fossa della discarica, era il più rischioso.
Nessuno voleva trasportarli. I fusti nei camioncini venivano stipati uno sopra all'altro e
spesso si ammaccavano, facendo venir fuori le esalazioni. Così, appena gli autotreni
giungevano, i camionisti non scendevano neanche. Li lasciavano svuotare. Poi dei
ragazzini avrebbero portato a destinazione il carico. Un pastore mi indicò una strada in
discesa dove si esercitavano a guidare, prima dell'arrivo del carico. In discesa gli
insegnavano a frenare, con due cuscini sotto il sedere per farli arrivare ai pedali.
Quattordici, quindici, sedici anni. Duecentocinquanta euro a viaggio. Li reclutavano in
un bar, il proprietario sapeva e non osava neanche ribellarsi ma rivelava il suo
giudizio sui fatti a chiunque, davanti ai cappuccini e ai caffè che serviva.
"Quella roba che gli fanno portare, più se la buttano in corpo quando respirano,
prima li farà schiattare. Questi li mandano a morire, non a guidare."
I piccoli autisti, più sentivano dire che la loro era un'attività pericolosa, mortale,
più sentivano di essere all'altezza di una missione così importante. Cacciavano il petto
in fuori e uno sguardo sprezzante dietro gli occhiali da sole. Si sentivano bene, anzi
sempre meglio, nessuno di loro neanche per un istante, poteva immaginarsi dopo una
decina d'anni a fare la chemioterapia, a vomitare bile con stomaco, fegato e pancia
spappolati.
Continuava a piovere. In pochissimo tempo l'acqua inzuppò la terra che ormai non
riusciva ad assorbire più nulla. I pastori impassibili si andarono a sedere come tre
santoni emaciati sotto una specie di pensilina costruita con le lamiere. Continuavano a
fissare la strada mentre le pecore si mettevano in salvo, arrampicandosi su una collina
di spazzatura. Uno dei pastori manteneva un bastone che spingeva contro la tettoia,
inclinandola per evitare che si riempisse d'acqua e cascasse sulle loro teste. Ero
completamente zuppo, ma tutta l'acqua che mi crollava addosso non riusciva a spegnere
una sorta di bruciore che mi saliva dallo stomaco e si irradiava sino alla nuca. Cercavo