Page 272 - Shakespeare - Vol. 4
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nella nona novella della seconda giornata, il cui cappello introduttivo recita:
          «Bernabò da Genova, da Ambrogiuolo ingannato, perde il suo e comanda che
          la moglie sia uccisa. Ella scampa, e in abito d’uomo serve ’l soldano; ritrova lo
          ’ngannatore, e Bernabò conduce in Alessandria, dove, lo ’ngannatore punito,

          ripreso abito femminile, col marito ricchi si tornano a Genova». Notevoli sono
          i  punti  di  contatto  tra  le  due  trame:  un  esempio  su  tutti,  la  scena  in  cui
          Iachimo/Ambrogiuolo  salta  fuori  dal  baule  nella  stanza  da  letto  di
          Imogene/Zinevra per ammirarla mentre dorme.

          Benché l’opera di Boccaccio non sia stata tradotta in inglese prima del 1620,
          è possibile che Shakespeare ne abbia letto una versione in francese (c’è chi
          sostiene  comunque  che  egli  avesse  una  certa  dimestichezza  anche  con
          l’italiano),  o  che  si  sia  ispirato  a  un  testo  inglese  tradotto  dal  tedesco,

          Frederyke of Jennen, che della novella boccaccesca riprendeva i temi.
          L’aspetto forse più interessante del romance, da questo punto di vista, è la
          presenza di figure, motivi e situazioni mutuate dalle tragedie del Bardo e qui
          spogliate di gran parte della loro carica tragica e «declassate», per così dire,

          a elemento fiabesco (in una cornice sottolineata, per esempio, dalla curiosa
          circostanza,  pressoché  unica  nel  corpus  shakespeariano,  di  una  Regina  che
          non  ha  nome,  al  pari  delle  streghe  delle  fiabe,  con  le  quali  condivide  una
          passione  per  gli  intrugli  venefici):  da  questo  punto  di  vista,  dunque,  è

          possibile  affermare  che  la  fonte  principale  cui  attinge  Shakespeare  nel
          comporre il Cimbelino è di fatto sé stesso.
          Tralasciando  i  tantissimi  richiami  minori  di  cui  pullula  il  testo  −  giusto  per
          citarne  un  paio,  si  pensi  alla  «storia  della  fiera  Cleopatra»  riprodotta

          nell’arazzo  che  Iachimo  (uno  Iago  «depotenziato»  al  punto  da  trovare  il
          pentimento finale) descrive a Postumo come prova della sua presenza nella
          camera  da  letto  di  Imogene  (II,  iv),  o  al  dialogo  dall’evidente  sapore
          «amletico»  che  lo  stesso  Postumo  intrattiene  con  il  carceriere  (V,  iv)  −

          basterà  prendere  in  considerazione  il  personaggio  di  Imogene  (vero  perno
          dell’opera),  che  assomma  in  sé  le  caratteristiche  di  tre  delle  più  riuscite
          eroine  shakespeariane:  la  Giulietta  di Romeo  e  Giulietta,  con  cui  ha  in
          comune,  per  esempio,  la  singolare  esperienza  del  risveglio  accanto  al

          cadavere dell’amato (o del presunto tale, nel suo caso, in una ripresa in cui
          alla  tragedia  subentra  la  tragicommedia);  la  Desdemona  di Otello,  di  cui
          ripropone,  nell’ambito  di  una  storia  che  procede  in  parallelo  salvo  poi
          divergere  nel  finale,  la  stoica  fedeltà  e  la  candida  innocenza  (come

          sembrerebbe  richiamare  anche  quello  che  probabilmente  era  il  nome
          originale  del  suo  personaggio,  Innogen,  poi  storpiato  da  un  copista);  e  la
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