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Restaurazione, con il gusto del pubblico di nuovo cambiato, William Davenant
produsse un libero adattamento di The Two Noble Kinsmen che escludeva il
primo e il quinto atto. Fu messo in scena nel 1664 con il titolo: The Rivals. A
Comedy e stampato nel 1668. Scomparso poi dai palcoscenici per più di
trecento anni, The Two Noble Kinsmen è rientrato recentemente, negli anni
Ottanta del nostro secolo, e nel repertorio delle compagnie shakespeariane a
Stratford-upon-Avon e a Londra.
DEMETRIO VITTORINI
Bibliografia per «I due nobili cugini»
TESTO
Questa traduzione segue sostanzialmente l’edizione curata da N.W. Bawcutt
per il New Penguin Shakespeare, Harmondsworth 1977; ma tiene conto
anche dell’edizione curata da G.R. Proudfoot per la Regents Renaissance
Drama Series pubblicata dalla University of Nebraska Press, Lincoln 1970.
Ultima arrivata tra le opere di Shakespeare, non compresa nell’in-folio del
1623, tenuta ancora in sospetto da critici e filologi, The Two Noble Kinsmen
ha poche edizioni moderne. Oltre alle due ricordate sopra, si segnalano:
quella a cura di H. Littledale, London 1876-1885; Temple Dramatists, a cura
di C.H. Harford, London 1897; The Shakespeare Apocrypha, a cura di C.F.T.
Brooke, Oxford 1908; Signet, a cura di C. Leech, New York 1966; The
Riverside Shakespeare, a cura di G. Blakemore Evans, Boston 1974; New
Oxford Shakespeare, a cura di W. Montgomery, Oxford 1986; Oxford
Shakespeare, a cura di Eugene M. Waith, ivi 1989.
TRADUZIONI ITALIANE
L’unica versione di The Two Noble Kinsmen precedente la nostra è quella di
Giorgio e Miranda Melchiori pubblicata nella collana «I Meridiani», vol. VI,
Milano 1981, con il titolo: I due nobili congiunti. È accompagnata da un ricco
apparato critico e bibliografico e da un’ottima ed esauriente introduzione.
FILOLOGIA E CRITICA
Come già si è accennato, la maggior parte dei critici si è occupata finora
dell’attribuzione di parti del testo dividendolo tra Fletcher e Shakespeare su
basi stilistiche e formali. Solo le introduzioni alle edizioni più recenti
considerano il dramma come opera d’arte a sé stante anche se frutto di una