Page 1737 - Shakespeare - Vol. 2
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(di cui fu tutore dal 1428 al 1436). Westmoreland è Ralph Neville (1364-1425): sostenitore di Henry
                 Bolingbroke (poi Enrico IV) nella ribellione a Riccardo II, fu di grande aiuto al nuovo re nel debellare
                 la rivolta di Henry Percy (“Hotspur”) nel nord del paese. Cugino di Enrico V, durante le campagne
                 francesi sarà preposto alla difesa del confine con la Scozia. Exeter è Thomas Beaufort (?-1427), zio
                 di Enrico, che lo farà governatore di Harfleur a conquista avvenuta: ha un ruolo di rilievo in 1-Enrico
                 VI.
              11 I, ii, 10 La richiesta del Re si presta a una duplice interpretazione: sta a noi decidere se i suoi scrupoli
                 sono sinceri, o puramente formali. Se puramente formali, assisteremmo al tentativo (consapevole o
                 meno) di ribaltare sui Vescovi la responsabilità di una guerra evitabile. Il suo discorso è infiorettato di
                 locuzioni quali “Dio non voglia”, “Dio sa bene”, “in nome di Dio”: ed è certo che per tutta la prima
                 metà del dramma Enrico parla a edificazione degli astanti. Una religiosità alquanto «ufficiosa»: solo
                 quando le cose si mettono male saremo in grado di mettere alla prova la sua fede.
              12 I,  ii,  11  La  legge  salica  non  è  un  codice  di  leggi,  ma  una  raccolta  di  norme  della  tradizione  e  del
                 costume germanici. Invocata a torto o a ragione dai francesi nel Trecento per confutare le pretese
                 di  Edoardo III  avanzate  nel  1328  e  reiterate  nel  1337,  alla  vigilia  del  primo  sbarco  inglese  sul
                 Continente,  che  segna  l’inizio  della  Guerra  dei  Cent’Anni.  Anche  l’anonimo  dramma Edoardo III  −
                 che risale al 1595 ma è ristampato nel 1599 − si apre con la dimostrazione delle pretese inglesi al
                 trono di Francia.

              13 I, ii, 22 Fino a questo momento − sostiene il Dover Wilson − il Re non è tenuto a sapere che i
                 Vescovi vogliono la guerra, né gli è stato ancora promesso l’appoggio finanziario della Chiesa: «Non
                 è l’Arcivescovo a manovrare il Re, ma il Re l’Arcivescovo; e a noi resta l’impressione − che è tutto,
                 in teatro − di una guerra comunque imminente, che tutto il paese reclama a gran voce, ritardata
                 soltanto dalla rettitudine del giovane Re che vuole prima sentirsi assolutamente certo di essere nel
                 giusto». Ma Enrico non è tanto ingenuo da non sapere che i Vescovi vogliono la guerra, e perché la
                 vogliono; e da buon politico fa finta di non saperlo, mettendoli così di fronte alle loro responsabilità.
              14 I, ii, 39 La relazione dell’Arcivescovo ricalca punto per punto Holinshed, inclusi due errori di persona
                 (Charlemain  è  in  realtà  Carlo  il  Calvo,  e  Luigi X  è  Luigi IX,  il  re  crociato).  Essa  è  sovente
                 drasticamente  tagliata  se  non  omessa  del  tutto,  nella  regia  teatrale;  ma  occorre  fare  molta
                 attenzione a quanto dicono i due melliflui prelati, poiché il nodo centrale del dramma − affrontato,
                 ma non risolto − è proprio questo: se sia giusta o ingiusta la causa del Re. E non si tratta tanto di
                 convincere il Re, quanto la platea: ché gli elisabettiani amano i lunghi sermoni e le argomentazioni
                 capziose, e ogni discussione del principio della legittimità (cardine dell’ordine sociale europeo) li trova
                 attenti  e  partecipi.  Il  Re  vuole  poter  agire  con  “chiara  coscienza”,  e  la  risposta  di  Canterbury
                 dev’essere  chiara  e  incontrovertibile.  Recitata  in  teatro,  essa suona  certo  incontrovertibile,  ma
                 tutt’altro  che  chiara.  Osserva  H.C.  Goddard  che,  se  leggiamo  fra  le  righe,  possiamo  cogliere
                 un’astuta  provocazione  negli  argomenti  di  Canterbury,  il  quale  presenta  tre  Re  di  Francia,  saliti  al
                 trono in barba alla legge salica. Pipino, che depose il suo predecessore (così come Enrico IV aveva
                 deposto  Riccardo II);  Ugo  Capeto,  che  (come  Enrico IV)  usurpò  la  corona  con  «un  simulacro  di
                 legittimità, anche se, a dir la pura verità, era nullo e viziato»; e Luigi, erede dell’usurpatore, il quale
                 «non riuscì a starsene con la coscienza tranquilla»: e nemmeno la coscienza di Enrico V è del tutto
                 tranquilla (come vedremo nella preghiera notturna, sul campo di Agincourt). Le sue pretese, inoltre,
                 si basano sul diritto di successione femminile: in tal caso egli avrebbe diritto al trono di Francia, ma
                 dovrebbe cedere quello d’Inghilterra a Edmund Mortimer. Circostanza che non dovrebbe sfuggire a
                 una parte almeno della platea. In breve, secondo il Goddard, l’intero discorso è intessuto di crudeli
                 ironie, visto che anche il titolo di Enrico V è “nullo e viziato”. Sia concesso obiettare che lo spettatore
                 in  platea  non  è  in  condizione  di  leggere  tra  le  righe:  possiamo  prendere  per  buona  la  casistica  di
                 Canterbury, o penetrarne sino in fondo il cinismo. La scelta è nostra.
              15 I, ii, 96 Il Re ribadisce che solo chi è nel giusto, di fronte a Dio e agli uomini, ha il diritto di scatenare
                 la guerra. Ma la sua è una domanda retorica? È espressa con l’impazienza di chi ha sete d’azione e
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