Page 15 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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«In quegli anni imparai a odiare la guerra… a comprenderne la illogicità, la
imbecillità, la follia.»
Quale figlia di Edoardo Fallaci, uno dei capi della Resistenza a Firenze, comandante
militare per il Partito d’Azione in città, avevo partecipato alla Resistenza contro i
fascisti e i nazisti. Ero staffetta di città e anche di montagna. Portavo armi, giornali
clandestini, messaggi ai compagni nascosti o riuniti in formazioni partigiane.
Attaccavo sui muri, con la colla, i manifesti contro i fascisti: la sera prima del
coprifuoco. Li infilavo nelle tasche della gente per strada o in tranvai. E per un certo
periodo il mio lavoro principale fu quello di accompagnare verso le linee alleate,
dalla città, i prigionieri inglesi e americani fuggiti dai campi di concentramento
italiani dopo l’8 settembre. Li accompagnavo in bicicletta, in viaggi che duravano
giornate intere: cinquanta chilometri, anche, ad andare, e cinquanta a tornare.
Bisognava passare attraverso i posti di blocco tedeschi ma per me era abbastanza
facile in quanto ero una bambina dall’aspetto molto infantile. Portavo ancora le
trecce. Una volta, dinanzi a un posto di blocco tedesco, un ex prigioniero sudafricano
(travestito da ferroviere) mi cadde. Sapeva andare malissimo in bicicletta. Io
cominciai a parlargli in italiano e lo tirai su. Le due sentinelle tedesche non
prestarono la minima attenzione. Un’altra volta mi cadde, sfasciandosi, in piena città,
un enorme pacco di «Non Mollare», il giornale clandestino del Partito d’Azione. E,
anche allora, nessuno mi prestò la minima attenzione. Insomma molti incarichi mi
venivano affidati proprio perché passavo inosservata.
Lavorai col gruppo di Giustizia e Libertà, squadre di azione cittadina, dalla fine
del 1943 fino alla liberazione di Firenze: agosto 1944. All’inizio del 1944 mio
padre venne arrestato. Avevano scoperto un deposito di armi che tenevamo in via
Guicciardini: le armi paracadutate dagli americani sul Monte Giovi. […]
Il babbo venne torturato per diversi giorni, assieme agli altri, e più volte
minacciato di fucilazione. […] Se la cavò per miracolo. Io tuttavia continuai a
rendere piccoli servizi col gruppo di Giustizia e Libertà. Avevo tutti gli indirizzi e
gli pseudonimi, nonché i nomi veri, dei compagni appartenenti alle cellule di città. Li
tenevo dentro una zucca vuota (dall’apparenza fresca) ciondoloni a una pianta
nell’orto di un convento dove eravamo nascoste: io, mia madre, le mie sorelline
Neera e Paola. Sotto la paglia tenevo la stampa clandestina. Il giorno della strage di
piazza Torquato Tasso (il convento era vicinissimo) fummo circondati. Riuscii, sotto
gli occhi dei militi fascisti e tedeschi, a portare in casa il materiale propagandistico