Page 119 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
P. 119
«Ragiono, scrivo, combatto come prima e più di prima.»
Io appartengo a una generazione, o meglio sono figlia di una società che ha sempre
avuto paura di pronunciare la parola «cancro» o ha sempre evitato di pronunciarla
come se fosse una parolaccia o una colpa. Quando uno muore di cancro si legge sui
giornali: «È morto di una malattia inguaribile», anche quando morì Willy Brandt,
così Audrey Hepburn, soltanto con Wojtyła han detto pane al pane vino al vino: «Il
Papa ha un cancro».
Mi sembra sbagliato. Non è vero che è una malattia inguaribile, a volte si
guarisce, si sopravvive alcuni anni, a volte anche parecchi, ed è ingiusto perché ci
toglie speranza. Non capisco questo pudore e questa avversione. Non è nemmeno una
malattia infettiva. Bisogna fare come si fa qui in America, bisogna dirla questa
parola, serenamente, apertamente, serenamente. «Io ho il cancro», dirlo come si dice
ho la polmonite, ho l’epatite, ho una gamba rotta. Io faccio così e a fare così mi
sembra di esorcizzarlo.
Pensai così anche dopo l’operazione, perché dopo l’operazione chiesi ai medici
di vederlo e dissi: «Portatemelo qui che lo voglio vedere in faccia quel figlio di
cane». Lo presi, loro me lo portarono, e a colpo d’occhio sembrava una pallina di
marmo, innocua, quasi graziosa. Ma io non lo vidi come una pallina di marmo, lo
vidi appunto come una creatura viva, come un alieno che era entrato dentro di me per
distruggermi. E quando alcuni giorni dopo lo riguardai al microscopio e vidi di
cos’è capace e quello che combina, che si riproduce nel corpo, capii veramente che
avevo un nemico in me da distruggere.
Come lo combatto? Come lo combattono tutti, l’ho combattuto con la chirurgia,
poi coi medicinali, con la radioterapia, ma io soprattutto lo combatto col cervello.
C’è una scuola qui in America che sostiene che bisogna combatterlo col cervello,
rifiutarlo col cervello.
Più che di un rapporto di guerra forse dovrei parlare di un rapporto di sfida, di
un dialogo muto, perché c’è un dialogo muto tra me e lui. Anche quando accendo la
sigaretta, perché meno di prima ma continuo a fumare e non le dico in questo Paese
dove la sigaretta è peccato mortale che scandalo provoco a fumare, anche quando
accendo una sigaretta mi sembra di sfidarlo, «Teh brutto stronzo, che ti fumo in
faccia».
Non è certamente un rapporto di paura. E questo lo dico con sorpresa perché
avere paura è più che legittimo, è più che lecito e anche salutare, ma anche quando