Page 121 - Oriana Fallaci - La vita è una guerra ripetuta ogni giorno
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Di lui parlo sempre. Apertamente. Con tutti. Ne parlo anche per rompere il tabù di

          cui divenni consapevole quando lui mi aggredì la prima volta, e il chirurgo che mi
          aveva  operato  disse:  «Le  do  un  consiglio.  Non  ne  parli  con  nessuno».  Rimasi
          allibita.  E  così  offesa  che  non  ebbi  la  forza  di  replicare:  «Che  cosa  va
          farneticando?!? Avere il cancro non è mica una colpa, non è mica una vergogna! Non
          è nemmeno un imbarazzo, visto che si tratta d’una malattia non contagiosa». E per
          settimane  continuai  a  rimuginare  su  quelle  parole  che  non  comprendevo.  Poi  le

          compresi. Perché se dicevo d’avere il cancro molti mi guardavano come se avessi la
          peste  descritta  da  Manzoni  ne I  promessi  sposi.  O  come  se  fossi  già  sottoterra.
          Impauriti, disturbati. Quasi ostili. Alcuni mi toglievano addirittura il saluto. Voglio
          dire: sparivano, e se li cercavo non si facevan trovare. Infatti fu allora che coniai il
          termine «Alieno». Oggi non accade più, ne convengo. Però stia attenta: di rado lo
          chiamano col suo vero nome. I giornali ad esempio dicono «malattia inguaribile».
          Gianni-e-Umberto-Agnelli-sono-morti-d’una-malattia-inguaribile.                         Jacqueline-

          Kennedy-morì-d’una-malattia-inguaribile.  Questo  perpetua  il  tabù,  e  quasi  ciò  non
          bastasse alimenta una menzogna. Perdio, non è vero che dal cancro non si guarisce!
          Spesso si guarisce. E se non si guarisce, si dura. Col mio sono durata circa undici
          anni. E grazie agli anticorpi che tengo nel cervello potrei durare un poco di più.

              […] [Ne parlo anche per] convincere chi ce l’ha a non fare quel che ho fatto io.
          È  colpa  mia  se  dopo  undici  anni  lui  s’è  risvegliato.  Colpa  mia.  Tutta  mia.  Con
          l’Undici Settembre smisi di curarmi. Di frequentare gli oncologi, di farmi gli esami.
          Infatti il direttore del Boston Hospital, allora l’ospedale che mi teneva d’occhio, mi
          mandò  una  letteraccia  in  cui  diceva:  «Ms  Fallaci,  you  are  putting  in  jeopardy  the
          reputation of my equipe. Lei sta mettendo a rischio la reputazione della mia équipe».
          Ma  non  avevo  il  tempo  di  andare  a  Boston.  Prima  l’articolone, La  Rabbia  e
          l’Orgoglio,  e  il  fracasso  che  ne  seguì.  Poi  il  libro  omonimo  e  il  fracasso  che  si

          raddoppiò. Poi le traduzioni… Dopo averlo pubblicato in Italia mi misi a tradurlo in
          inglese e in francese nonché a controllare, parola per parola, la versione spagnola.
          Non mi fido mai dei traduttori, tra me e loro v’è un’ostilità sanguinosa, e nelle lingue
          che  conosco  preferisco  tradurmi  da  sola.  Poi  i  processi  in  Francia,  le  accuse  di
          razzismo  religioso,  di  istigazione  all’odio,  di  xenofobia.  Poi  le  stronzate  dei  no-

          global che volevano entrare nel centro storico di Firenze e sfregiare i monumenti,
          sicché venni in Italia per tentar d’impedirglielo. Poi la guerra in Iraq dove stavo per
          andare  e  non  andai  perché  non  si  può  salire  sui  carri  armati  o  correre  sotto  le
          mitragliate  con  un  corpo  che  non  ti  obbedisce.  Per  oltre  due  anni  queste  cose
          requisirono  ogni  istante  della  mia  vita,  e  m’indussero  a  dimenticare  l’Alieno  che
          dormiva.  Dio,  che  sciocchezza.  Che  suicidio.  Comunque  il  vero  suicidio  l’ho
          commesso a evitare i medici per scrivere La Forza della Ragione. Non a caso mia

          sorella  Paola  odia  quel  libro  in  maniera  maniacale  e  quando  ne  vede  una  copia
          sibila: «Maledetto. Sei tu il responsabile».
              […]  Io  non  mi  proponevo  di  scrivere  un  altro  libro  su  di  noi  e  sull’Islam.
          L’assillo del mio-bambino insomma del romanzo interrotto [Un cappello pieno di
          ciliege,  uscito  postumo, N.d.R.] mi tormentava, l’ansia di toglierlo dal cassetto mi
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