Page 310 - Oriana Fallaci - Le radici dell'odio. La mia verità sull'Islam
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certi  casi  la  puntualità  non  esiste.  Ma  contrariamente  al  tenente
          colonnello  Je   Knight  prima  di  questa  guerra  non  era  mai  stato  alla

          guerra,  sicché  il  ritardo  lo  inquieta.  Per  calmarsi  mi  fa  toccare  le
          manopole,  mi  spiega  in  che  modo  funzionano,  mi  ripete:  «Pretty  soon,
          you’ll enjoy a real incredible show, presto si godrà uno spettacolo davvero
          incredibile». E non esagera. D’un tratto una sagoma scura, una specie di
          rondine, sbuca dalla parete di nubi. In pochi istanti diviene un Phantom

          che si avvicina e, decelerando  no a uguagliare la velocità del KC 135,
          disinvolto  come  un  autista  che  raggiunge  un  camion  per  tallonarlo,  si
          piazza a pochi centimetri dalla bocca del boom. Si piazza talmente bene,

          in  maniera  così  precisa,  che  il  sergente  Dan  Gilson  non  ha  neanche
          bisogno di allungarlo: per compiere l’operazione gli basta in larlo dentro
          la  valvola  di  rifornimento  col  gesto  che  io  compio  quando  in lo  il
          beccuccio  di  una  bomboletta  dentro  la  valvola  del  mio  accendino.  E
          mentre il carburante passa nei serbatoi posso comodamente osservare il

          pilota che sta a 5 metri da me:  ssarlo nelle pupille. Posso perché non ha
          i grossi occhiali neri che i piloti usano in volo. Porta un semplice paio di
          occhiali da vista, cerchiati d’oro.

             Mi fissa anche lui, con durezza. «Che guardi?» sembra chiedere. «Chi sei,
          che vuoi?» È assai giovane. La fronte, visibile malgrado il casco, è liscia.
          Sono lisce anche le guance semicoperte dalla maschera dell’ossigeno che
          gli tappa il resto del volto, e ciò che ha scritto sul bordo della fusoliera
          racconta  qualcos’altro  di  lui.  Vi  ha  scritto  il  suo  nome:  capitano  Ken

          Harrison. Insieme a questo, il nome del navigatore che sta dietro di lui:
          capitano  Bill  Enker.  Il  navigatore  non  posso  osservarlo:  il  casco,  la
          maschera dell’ossigeno, i grossi occhiali neri lo nascondono  no al collo.

          Però si capisce che è molto nervoso. Sbircia l’orologio, il boom, di nuovo
          l’orologio, si abbandona a gesti di impazienza, forse impreca, e il sergente
          Dan  Gilson  mi  spiega  perché.  Ha  ancora  gli  Harm  Rockets,  i  razzi,
          attaccati  alle  ali  del  Phantom.  Non  li  ha  ancora  sganciati  sui  radar  da
          distruggere.  Poi  il  serbatoio  si  riempie,  il  sergente  Dan  Gilson  stacca  il

          boom  dalla  valvola  che  spruzza  un  getto  di  benzina,  il  capitano  Ken
          Harrison smette di  ssarmi con durezza, il capitano Bill Enker abbassa la
          testa  sul  computer,  e  il  Phantom  si  abbassa.  Scivola  a  destra,  slitta  via

          come un pattino su una lastra di ghiaccio, si allontana sparendo dentro la
          parete di nubi, e subito un secondo Phantom prende il suo posto. Senza
          nomi scritti sulla fusoliera, stavolta. Senza pupille che mi  ssano mentre
          le   sso.  Senza  occhiali  cerchiati  d’oro.  Sia  il  pilota  sia  il  navigatore
          portano  quelli  grossi  e  neri.  Però  anche  loro  hanno  gli  Harm  Rockets

          ancora  attaccati  alle  ali,  neanche  loro  li  hanno  sganciati  sui  radar  da
          distruggere. E lo stesso i due del terzo, del quarto, del quinto, del sesto.
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