Page 5 - Francesco tra i lupi
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un po’ malinconica, la sua espressione abituale. Nessuno lo riconosce nel suo clergyman nero, lui stesso non
    appare frequentemente in televisione, evita i ricevimenti ufficiali. La grande Buenos Aires ha tredici milioni
    di abitanti, il nucleo cittadino quasi tre.
      Fa caldo in mezzo alla massa dei pendolari assiepati nel vagone. Intorno a Jorge c’è chi rimugina i suoi
    pensieri, fissa le pareti del tunnel scandite dalla luce al neon, ciondola la testa assonnato, guarda nel vuoto con
    lo sguardo rassegnato. Qualcuno – anche se giovane – porta negli occhi uno sguardo duro, feroce. Jorge è
    circondato da madri con bambini imbacuccati, vecchi in piedi sballottati dal convoglio, molti giovani che
    smanettano con il cellulare.
      Ad  ogni  fermata  una  scossa  in  più  e  uno  stridio  assordante  di  freni.  Quaranta  minuti  di  metro  nel
    rimescolamento di razze, origini, storie che è Buenos Aires. Figli e discendenti di spagnoli, italiani, russi,
    cinesi,  africani,  tedeschi,  francesi,  autoctoni  dell’America  centrale,  immigrati  sudamericani  di  ogni
    nazionalità.  Nei  vagoni  si  incrociano  classi  medie  attente  al  bilancio  familiare,  giovani  aggrappati  ad
    un’occupazione qualsiasi, masse sul filo della sopravvivenza.
      L’arcivescovo  Jorge  Mario  Bergoglio  non  usa  auto  né  autista,  così  come  ha  rifiutato  l’elegante  residenza
    arcivescovile, scegliendo per sé due stanze al terzo piano della curia diocesana. L’arcivescovo sa guidare, da
    superiore  provinciale  dei  gesuiti  –  negli  anni  Settanta  al  tempo  della  dittatura  di  Videla  –  in  più  di
    un’occasione ha accompagnato in macchina perseguitati politici alla ricerca di un rifugio o di una via di fuga.
    Ora  non  usa  più  l’auto.  Da  quando  è  diventato  vescovo  ausiliare  nel  1992  e  poi  primate  d’Argentina,  è
    immerso nel flusso quotidiano della gente sui mezzi pubblici. Metro o colectivo, l’autobus urbano. Può anche
    capitargli che una donna seduta accanto, vedendo l’abito nero, gli chieda: «Padrecito, mi confessa?». «Sì, claro»,
    è la risposta. Una volta sul bus una fedele non cessava di raccontare i suoi peccati, finché non l’ha interrotta
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    garbatamente: «Bene, tra due fermate devo scendere» .
      Piazza Virreyes, trentacinque gradini alla risalita per i suoi piedi un po’ piatti e la gamba indolenzita. In cima
    alla scala c’è una madonnina di Fatima, ornata di fiori freschi. Ora Jorge è sotto una grande tettoia, aria afosa
    d’estate, fredda e umida d’inverno. Pazienti, tutti attendono la pre-metro, uno scalcinato trenino urbano che
    si  inoltra  verso  le  periferie.  Non  c’è  prelato  di  curia  in  Vaticano  o  cardinale  presidente  di  conferenza
    episcopale o vescovo di una delle tante nazioni in cui è impiantata la Chiesa cattolica, che sia abituato a questa
    snervante routine. E se c’è, è ben nascosto.
      Ancora due fermate ed è arrivato a Villa Ramón Carrillo. “Villas miseria” si chiamano le borgate messe su
    in condizioni di fortuna o, più pudicamente, “Villas de emergencia”. Alla fermata i binari sono intasati di
    cartacce  e  barattoli  buttati  alla  rinfusa.  Pochi  passi  e  comincia  la  borgata.  Case  abusive  lasciate  a  metà  o
    cresciute  per  successive  superfetazioni.  A  pochi  metri  si  interrompe  la  strada  asfaltata,  si  entra  in  terra  di
    nessuno, terra battuta e rigagnoli perpetui che odorano di fogna. Qui finisce la legge. Qualche gruppo di case,
    più sistemato, abbellito da vasi di fiori alle finestre, ricorda le borgate pasoliniane. Più frequente è il paesaggio
    di un’urbanizzazione rozza e selvaggia, in cui domina la sensazione di trovarsi in uno spazio in cui sono saltati
    tutti i parametri. «Qui lo Stato non c’è», raccontano i preti di borgata, anche se a Villa Ramón Carrillo ci sono
    una scuola elementare e un ambulatorio.
      Spesso le parrocchie sono collocate verso i bordi dell’agglomerato, quasi a mantenere un corridoio d’uscita
    per raggiungere la città “normale”. Ai margini di un’altra borgata, la Villa-21, c’è anche un posto di guardia
    presidiato da giovani in divisa color cachi della “Forza navale”. Ragazzoni alti con giubbotti antiproiettile.
    Paradossalmente la loro presenza trasmette ancora più la percezione d’insicurezza. Molti tassisti nelle Ville non
    ci  vogliono  andare.  «Derubano,  assaltano»,  è  il  passaparola.  Pedro  Baya,  parroco  dell’Immacolata  alla  Villa
    Ramón Carrillo, non nega: «Talvolta ho sentito le pallottole fischiare vicino a me», afferma con calma.
      Jorge, perché così chiamano a tu per tu l’arcivescovo i suoi sacerdoti, viene in borgata, in tutte le parrocchie
    delle borgate, anno dopo anno. Più volte all’anno. Per la festa patronale, la processione della madonna, un
    ritiro  spirituale,  qualche  occasione  speciale,  la  riunione  annuale  dei  preti  o  degli  insegnanti  delle  scuole
    cattoliche presenti in zona. Partecipa alla processione, si ferma a parlare con la gente, gran parte immigrati da
    Paraguay, Bolivia, Perù e dalle zone interne dell’Argentina. È talmente lontano dall’immagine tradizionale
    dell’arcivescovo-autorità che al vederlo la prima volta i fedeli della comunità peruviana rimasero male perché,
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    dice il parroco Pedro, «non arrivava in limousine e con le fanfare» .
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