Page 100 - Francesco tra i lupi
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L’avvento di papa Francesco ha incrociato in Italia una Chiesa disorientata, nella quale l’unica stella polare
    per i vertici della Cei erano i principi non negoziabili, e in una situazione di frammentazione dell’episcopato,
    dove una parte dei vescovi appare ancora legata nelle regioni a rapporti con i piccoli potentati politici locali e
    un’altra parte si sforza di costruire una comunità ecclesiale libera da compromissioni politiche, in grado di
    parlare a tutta la società. È una Chiesa poco abituata alla trasparenza in materia economica, dove il rendiconto
    sull’8  per  mille  è  pubblico  mentre  è  tenuto  segreto  il  bilancio  delle  diocesi,  specie  riguardo  alle  proprietà
    immobiliari. Secondo «Il Sole 24 Ore», circa il 20 per cento del patrimonio immobiliare italiano appartiene
    alla Chiesa, per un valore approssimativo di mille miliardi. Da non confondersi con le proprietà del Vaticano.
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    Il solo dicastero vaticano di Propaganda Fide possiede a Roma proprietà per nove miliardi di euro .
      Il nuovo pontefice, abituato da arcivescovo di Buenos Aires e presidente dell’episcopato argentino ad una
    libertà di critica verso i vertici politici nazionali sconosciuta ai vescovi italiani, non ha nascosto fin dall’inizio
    la volontà di rimettere la Cei su nuovi binari. Ha confermato il cardinale Bagnasco alla presidenza e ha subito
    chiarito che era finita l’era in cui il Vaticano si intrometteva nelle vicende politiche italiane. «Il dialogo con le
    istituzioni culturali, sociali, politiche è un compito vostro... è cosa vostra», ha ripetuto ben due volte in una
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    brevissima allocuzione ai vescovi italiani due mesi dopo l’elezione .
      Al primo incontro in Vaticano con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il papa ha ignorato i
    principi non negoziabili e ha insistito sulla collaborazione tra «credenti e non credenti nella promozione di
    una società dove le ingiustizie possano essere superate e ogni persona venga accolta e possa contribuire al bene
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    comune» .  Recandosi  in  visita  al  Quirinale  nel  novembre  del  2013,  il  pontefice  ha  archiviato
    definitivamente la proclamazione dei principi non negoziabili, rinunciando a invocare in maniera insistita le
    radici cristiane. L’Italia, ha auspicato, sappia attingere per la ripresa al «suo ricco patrimonio di valori civili e
    spirituali».  Compito  primario  della  Chiesa,  ha  chiarito,  è  di  «testimoniare  la  misericordia  di  Dio  e  di
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    incoraggiare generose risposte di solidarietà per aprire a un futuro di speranza» . (Bergoglio dirà in seguito al
    direttore del «Corriere della Sera», Ferruccio De Bortoli: «Non ho mai compreso l’espressione valori non
    negoziabili. I valori sono valori e basta».)
      Sintomatica del nuovo clima è l’affermazione del presidente Napolitano di aver trovato nel pontificato di
    Francesco l’«assenza di ogni dogmatismo, la presa di distanze da “posizioni non sfiorate da un margine di
    incertezza”, il richiamo a quel “lasciare spazio al dubbio” proprio delle grandi guide del popolo di Dio». Il
    capo dello Stato sottolinea la volontà del papa di instaurare un «dialogo con tutti, anche i più lontani e gli
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    avversari» .
      Nel  frattempo  il  pontefice  preme  per  la  redazione  di  un  nuovo  statuto  della  Cei,  chiedendo  un  deciso
    ridimensionamento  del  suo  apparato  e  dei  costi  di  gestione,  un  rafforzamento  del  ruolo  delle  conferenze
    episcopali regionali, una riduzione delle diocesi e una revisione delle modalità di elezione del presidente, per
    uniformarle alle altre conferenze episcopali del mondo.
      Tra  i  fedeli  l’attesa  che  la  Chiesa  italiana  riesca  a  darsi  una  nuova  fisionomia  è  altissima  da  anni.  Lo
    testimoniano alcuni libri apparsi come grida di dolore a ridosso dell’ultimo anno di regno di Ratzinger. In
    Manca  il  respiro dello storico Giorgio Campanini e del sacerdote Saverio Xeres, docente presso la Facoltà
    teologica dell’Italia settentrionale, si segnalava il grande disagio diffuso tra molti fedeli per colpa di un vertice
    gerarchico autoreferenziale, del progressivo depotenziamento dei documenti conciliari e di ciò che il teologo
    Enzo Bianchi definisce una «pre-lettura di eventi e circostanze, che viene poi calata dall’alto nelle singole realtà
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    regionali o diocesane» .
      Più  duro  ancora  il  giudizio  dell’ex  vicedirettore  dell’«Osservatore  Romano»  Gian  Franco  Svidercoschi,
    testimone da cronista del concilio Vaticano II e collaboratore di Giovanni Paolo II nella stesura del libro Dono
    e mistero: «Calano i battesimi, le vocazioni, i matrimoni religiosi, aumentano gli sbattezzi, c’è un decadimento
    della  vita  morale  e  un’incapacità  dei  cristiani  di  essere  presenti  nel  mondo.  E  si  reagisce  ritirandosi  nelle
    proprie strutture, aggrappandosi ai privilegi clericali, rifugiandosi nel corporativismo, nel carrierismo, nel
    centralismo romano». Autore di Mal di Chiesa e del saggio Il ritorno dei chierici, Svidercoschi denunciava fino a
    poche settimane prima dell’elezione di papa Francesco che nello scontro con la modernità la Chiesa alza la
    barriera  dell’identità,  incapace  di  affrontare  la  libertà  della  società  contemporanea.  Con  un  clero  in  parte
    ispirato ad un’eccessiva sacralizzazione del proprio ruolo, ma anche con «tanti giovani preti [che] mostrano
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