Page 131 - Amici come prima. Storie di mafia e politica
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Gaspare  Giudice,  di  Forza  Italia,  e  delle  sue  relazioni  con  la  mafia  di
          Bagheria, note e documentate anche nello sviluppo del processo. O della
          vicenda  del  deputato  regionale  dei  Democratici  di  sinistra,  Domenico
          Giannopolo,  e  dei  rapporti  che,  come  sindaco  di  Caltavuturo,  secondo  i

          pubblici ministeri, avrebbe intrattenuto con alcuni imprenditori comunisti in
          odor di mafia o in affari con essa, i fratelli Potestio. L'inchiesta tre anni fa
          portò la Procura di Palermo a emettere anche per lui un avviso di garanzia
          per concorso esterno in associazione mafiosa. Dopo tre anni, nonostante il

          diniego di tutte le accuse da parte del deputato, ancora non si sa a che
          punto siano le indagini e che cosa pensi in merito la Procura di Palermo.
              Le storie che ho scelto sono quelle che a me sembrano emblematiche e
          significative del salto di qualità che è già avvenuto nelle relazioni mafiose e

          in  quelle  politiche.  Con  la  convinzione  che  oggi  il  nodo  cruciale  sia
          rappresentato  dal  ruolo  della  borghesia  mafiosa,  che  costituisce  il  vero
          punto di incontro tra l'economia, gli interessi di Cosa nostra, la politica e
          larghi settori sociali.

              Si  tratta  di  un  collante  dinamico,  che  attraversa  tutta  la  società
          meridionale  e  siciliana,  si  rigenera  nei  processi  di  accumulazione  della
          ricchezza e dei profitti che qui si realizzano e che hanno segnato fino a oggi
          l'intero processo di modernizzazione capitalistica del Mezzogiorno.

              A  differenza  delle  altre  cose  umane,  quindi,  non  credo  che  la  mafia
          possa  essere  sconfitta  finché  essa  vive  e  si  alimenta  di  un  sistema
          economico e di un modello sociale vincenti.
              Né credo che in Sicilia, dentro questo sistema, la politica e la società

          siano facilmente riformabili.
              Peppino  Di  Lello,  il  magistrato  e  l'amico  che  tante  volte,  in  incontri
          privati e riunioni di partito, mi ha richiamato alla necessità di tenere ferma,
          con  rigore,  l'identità  e  la  pratica  garantista  della  sinistra  e  di  guardare

          all'operato  dei  magistrati  con  occhio  critico  e  libero  dalle  convenienze
          politiche della loro azione, a conclusione del suo bel libro, Giudici, scrive
          che  nella  lotta  contro  Cosa  nostra  «non  è  detto  che  si  vinca,  ma  non  è
          detto che si perda». Lo scrive dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio, nei

          giorni del risveglio della società civile e della rivolta delle coscienze. In tutti
          questi anni ho chiuso i miei interventi in incontri pubblici con gli studenti e
          assemblee di giovani citando questa frase.
              Oggi non ne sono più convinto. Penso che, sull'irredimibilità di questa

          realtà, avesse ragione Leonardo Sciascia. In questa mia affermazione non
          c'è alcuna rassegnazione, né alcuna accettazione acritica della realtà. Ma
          queste pagine, con lo sforzo di imparzialità e obiettività che ho provato a
          realizzare nello scriverle, ci rimandano, purtroppo, a una storia senza fine.
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