Page 525 - Shakespeare - Vol. 2
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spiegazione che in effetti fa torto al personaggio, al suo creatore e alle regole
          dell’umorismo, note nel 1597 come oggi. I saggi di Morgann e Bradley sono
          ristampati  nella  buona  scelta  critica  a  cura  di  G.K.  Hunter, Shakespeare:
          Henry IV  Parts I  and II: A Casebook, London, Macmillan, 1970, antologia dei

          principali contributi. Fra questi un estratto da J. Dover Wilson, The Fortunes
          of Falstaff, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 1943, studio che mette in luce
          la  derivazione  di Henry IV  (considerato  da  Wilson  un  solo  dramma  in  dieci
          atti) dal dramma allegorico del 1400-1500 (morality play),  tipo Everyman o

          Youth  (1520):  Falstaff  sarebbe  la  reincarnazione  del  «Vizio»  che  cerca  di
          distogliere  il  giovane  cristiano  dalla  virtù.  William  Empson,  che  già  aveva
          scritto del rapporto ironico fra corte e taverna in Some Versions of Pastoral
          (1935), rispose al volume di Wilson e alla sua edizione del 1946 (v. sopra),

          preziosa  per  l’apparato  delle  note  ma  compromessa  da  troppi  interventi
          arbitrari specie nelle didascalie, con un saggio scettico ed eccentrico, Falstaff
          and  Mr.  Dover  Wilson  (1953),  anch’esso  ristampato  da  Hunter,  per  cui  il
          personaggio  è  ben  di  più  del  tipo  del  vizioso  tentatore,  è  fra  l’altro  «lo

          scandaloso uomo altolocato il cui comportamento imbarazza la sua classe»,
          «la prima grossa beffa degli inglesi contro il loro sistema di classe»... Tutti
          suggerimenti  discutibili  almeno  quanto  quelli  riduttivi  di  Wilson.  In  questa
          tradizione  della  divagazione  a  ruota  libera  si  situa  anche  l’articolo  di  W.H.

          Auden, The  Prince’s  Dog  (1959,  in  Hunter),  che  ha  però  osservazioni
          interessanti sul rapporto di Henry IV con i Sonetti. Di ben diverso spessore il
          saggio  di  Erich  Auerbach, Il  principe  stanco  (in Mimesis,  Torino,  Einaudi,
          1956),  che  muove  da  un  brano  di 2  Henry IV per discutere del realismo di

          Shakespeare,  ma  potrebbe  egualmente  bene  leggersi  a  commento  della
          prima battuta di Hal in 1 Henry IV, II, iv.
          E.M.W. Tillyard, nel suo fondamentale Shakespeare’s History Plays, London,
          Chatto  &  Windus,  1944,  legge  le Histories  come  versione  drammaturgica

          dell’ideologia  Tudor,  sacrificandone  così  le  ambiguità.  Sulla  stessa  linea  si
          muove  L.B.  Campbell  nel  pur  utile Shakespeare’s  Histories,  Mirrors  of
          Elizabethan Politics,  San  Marino  (CA),  Huntington  Library,  1947.  J.  Wilders,
          The  Lost  Garden,  London,  Macmillan,  1978,  propone  uno  schema  ideale

          alternativo  rispetto  a  Tillyard,  insistendo  sul  motivo  della  caduta  e  della
          fortuna. Una sensibile lettura complessiva di 1 Henry IV è in C. Brooks e R.S.
          Heilman, Understanding Drama, New York, Holt, 1948. Buone discussioni del
          contesto delle Histories si leggono in D.A. Traversi, Shakespeare from Richard

          II to Henry V, London, Hollis and Carter, 1957, e M.M. Reese,  The Cease of
          Majesty, London, Arnold, 1961. Ottime osservazioni ha G. Baldini, Manualetto
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