Page 153 - 101 storie di gatti
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                             IENA PLISSKEN





                             Dal 1983 il carcere di Sollicciano è il più importante istituto di

          detenzione di Firenze. Ha sostituito il monastero delle Murate dalle cui finestre
          sbarrate i detenuti potevano sentire profumi e voci dell’antico mercato di

          Sant’Ambrogio e i più fortunati le campane di Santa Croce. Da Sollicciano, Firenze
          non solo non si vede ma è perfino difficile immaginarla. Nel 1991 via Girolamo
          Minervini, questo il nome della strada nella parte sud-ovest della città ai confini con
          Scandicci dove si trova il carcere, non era altro che un nastro di asfalto tra il nulla e
          una lunga barriera di tubi alti sei metri, disposti a distanza di pochi centimetri l’uno
          dall’altro a formare il moderno muro di cinta del penitenziario.
              Quel giorno di primavera davanti a Sollicciano non c’era il solito deserto. Una
          piccola pattuglia di giornalisti e fotografi aspettava, da ore, la conclusione

          dell’interrogatorio di un importante capo mafia appena trasferito da una delle tante
          prigioni del paese. L’avvocato del boss, uscendo, avrebbe fatto la grazia, forse, di
          fermarsi un momento a raccontare qualcosa. I magistrati sarebbero usciti poco dopo
          senza neanche far rallentare auto rese pesanti dai vetri blindati. E invece non usciva
          nessuno e le nuvole scure decisero di guadagnarsi la giornata rovesciando

          sull’asfalto un acquazzone violento accompagnato da lampi splendenti e tuoni secchi
          e potenti. La pattuglia di giornalisti si concentrò sotto l’unica pensilina che offriva un
          riparo sicuro. Fu allora che dal carcere uscì qualcuno. E non aveva niente a che fare
          con avvocati e magistrati. Un piccolo punto nero, che dal grande spazio antistante
          l’ingresso del penitenziario avanzava a zig zag, con brusche frenate e repentine
          accelerazioni, come se questo avesse potuto ripararlo dalla pioggia o difenderlo dai
          tuoni. Il puntino nero correva verso l’alta cancellata, pronto a superarla di slancio se

          quei boati gli avessero dato anche solo una possibilità di scampo. «E quello cos’è?»,
          chiese il primo giornalista, appena dopo averlo notato. «Un topo?», azzardò
          qualcuno. Le dimensioni in effetti erano quelle. «È un gattino» disse infine l’unica
          giornalista del gruppo, la più attenta.
              Nel frattempo “lui” che non aveva più di due mesi, un manto grigio scuro
          screziato, aveva superato l’alta cancellata e si era lanciato risoluto verso la

          pensilina. Era l’unico riparo dalla pioggia e per di più completamente occupato da
          umani. Arrivato davanti a quella muraglia di braccia, gambe, pantaloni e sguardi
          perplessi, il gattino si concesse l’unica sosta. Per studiarli. Poi si lanciò nell’ultima
          corsa: scelse quello che gli era sembrato più adatto allo scopo, aggredì d’un balzo i
          pantaloni scalandoli velocemente, riempì di orme con le zampette umide la camicia e
          andò ad accucciarsi sotto la giacca proprio dove la spalla consente di stare al caldo
          senza soffocare.
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