Page 7 - Primi poemetti
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pensiero mio non cattivo. Vorrei che voi osservaste con me, che a vivere discreta-
        mente, in questo mondo, non è necessario che un po’ di discrezione... Vorrei che
        pensaste con me che il mistero, nella vita, è grande, e che il meglio che ci sia da

        fare, è quello di stare stretti più che si possa agli altri, cui il medesimo mistero
        affanna e spaura.
          E vorrei invitarvi alla campagna. Appunto oggi è arrivata gente di fuori, di lon-

        tano. I rondoni. Strillano in gruppi di quattro o cinque: in corse disperate, come
        pazzi. Fanno il nido nei buchi lasciati dalle travi. Ecco che io ho intorno casa an-
        che i rondoni, popolo bellicoso e straniero, vestito di nero opaco. Ahimè! con le
        rondini non andranno d’accordo! saranno risse e guerre! Ma no.
          Io vi racconto, per finire, un fatto di cui sono stato testimonio or ora. Un ron-

        done (è forse una femmina: certe bontà si suppongono meglio in una che fu o è
        per essere madre), un rondone viene e rinviene, col suo volo di saetta, a uno de’
        miei nidini di balestruccio. Vuol forse impadronirsene? cacciarne la famiglia che

        c’è già?
          No: egli porta ogni volta qualche cosa da mangiare; sta arrampicato un poco
        alla porticella o finestrella del nido, ed è subito sbarazzato della sua piccola
        preda. O caro buon rondone: tu non hai forse da fare oggi; tu non hai forse an-
        cora compagno o compagna; e, tanto per non stare (ero per dire, con le mani in

        mano: ma non si tratta d’uomini, qui) per non stare in ozio, dài un po’ d’aiuto
        a una rondinella, a una d’altra nazione e razza, che ha forse troppi figliuoli e
        troppo da fare e poco da mangiare. Carità... internazionale! O caso più pietoso

        ancora, si tratta d’orfanelli? e un altro povero li nutre e tira su alla meglio?
          Uomini, dirò come in una favola per i bimbi: uomini, imitate quel rondone. Uo-
        mini, insomma contentatevi del poco («assai» vuol dire sì abbastanza e sì molto:
        filosofia della lingua!), e amatevi tra voi nell’ambito della famiglia, della nazione
        e dell’umanità. Ma io non parlo più a te, dolce Maria. Eccomi a te di nuovo... Ma

        c’è da fare il pane. Oggi è sabato. Lasciamo la penna, e andiamo. Andiamo, buo-
        na sorella, a fabbricarci il nostro pane quotidiano, o, a dir meglio, settimanale,
        che ci sembra poi così buono, né solo perché fatto a crocette, come è usanza

        della nostra Romagna (qua li chiamano colombini, come quelli di Pasqua), ma
        perché intriso, rimenato e foggiato dalle nostre proprie mani. Andiamo dunque
        a fare opera... indovina, di che?... di emancipazione, figliuola mia!


                                                                                              Giovanni





        Castelvecchio di Barga, 5 giugno 1897.
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