Page 280 - Lezioni di Letteratura Italiana
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quello, ma non parla. È Curio, tribuno di Roma, che cacciato dal partito di Pompeo da Ro-
               ma, si recò a Rimini a sollecitare il proconsole della Gallia a farsi ragione colle armi. Cesare,
               persuaso da Curio, e avendone già voglia, fece passare il Rubicone alle legioni. Così fu getta-
               to il dado e cominciò la nuova era degli imperatori romani. Dante approva e loda il passag-
               gio del Rubicone pur condannando l’uomo che lo aveva proposto. Si vede qui una delle so-
               lite contraddizioni di Dante; ma ciò non è, perché egli colpisce le intenzioni. Cesare era un
               mandato da Dio per creare l’impero, Curione era, invece, un ambizioso che voleva dividere
               la Repubblica in due partiti.
                     (5)  Seguono pochi versi che valgono quanto poche scalpellate di Michelangelo. A un
               certo punto, finito di parlare di Curione, Dante sente dirsi: Ricordati anche del Mosca (Dei
               Lamberti) che disse: «Cosa fatta, capo ha»; che introdusse, cioè, in Firenze la divisione fra
               Guelfi e Ghibellini e fu la rovina della Toscana. E Dante aggiunge: E la fine della tua genera-
               zione (perché i Lamberti sono finiti).

                 Ma io rimasi a riguardar lo stuolo,   Quando diritto appiè del ponte fue,
               E vidi cosa ch’ io avrei paura     Levò‘l braccio alto con tutta la testa,
               Senza più prova di contarla solo: (1)  Per appressarne le parole sue.
                 Se non che la coscïenza m’ assicura  Che furo: Or vedi che la pena molesta
               La buona compagnia che l’uom francheggia Sotto   Tu che, spiando, vai veggendo i morti,
               l’usbergo del sentirsi pura.       Vedi se alcuna è grave come questa.
                 Io vidi certo, ed ancora par ch’io veggia,   E perché tu di me novella porti,
                                                                        (2)
               Un busto senza corpo andar, sí come  sappi ch’io son Bertram dal Bormio,  quelli
               Andavan gli altri della trista greggia.  Ch’al re giovane diedi i mai conforti.
                 E ’l capo tronco tenea per le chiome   Io feci il padre e il figlio in sé ribelli:
               Pesol con mano, a guisa di lanterna:  Achitofel non fe’ più d’Absalone
               E quel mirava noi e diceva: O me!  E di David, coi malvagi pungelli.
                 Di sé faceva a se stesso lucerna;   Perch, io partii così giunte persone,
               Ed eran due in uno ed uno in due:   Partito porto il mio cerebro, lasso!
               Com’esser può quei sa che sì governa  Dal suo principio, ch’è in questo troncone.
                                                    Così s’osserva in me lo contrappasso.



                     (1)  Vede, dunque, Dante, dopo, uno spettacolo ancora più orrendo, tanto che ha bi-
               sogno di dire che la coscienza la assicura nel dire questa cosa incredibile. Che vede così fuor
               dell’ordinario che ha bisogno di ricorrere a un giuramento (e questi versi sono poi divenuti
               proverbiali ) per far certi della verità di quanto dice? Vede un busto senza corpo andare co-
               me gli altri della trista greggia e tenere il capo per le chiome pensol (pendulo, non sostenen-
               dolo, ma lasciandolo cadere giù ). E la testa diceva: O me! con l’accento trasportato sull’o
               per la rima). E Dante dice: È Dio che ha condannato costoro a esser due in uno e uno in due.
                     (2)  Bertram de[a]l  Bormio  inimicò il  padre  col  figlio e  fece  più  danno  che
               non facesse Achitofel, che provocò grave discordia fra Davide e il figlio Assalonne.


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