Page 276 - Lezioni di Letteratura Italiana
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Quando avem volta la dolente strada;   Ma chi se, tu che in su lo scoglio muse
               Perocché le ferite son richiuse    Forse per indugiar d’ire a la pena
               Prima ch' altri dinanzi gli rivada.  Ch’è giudicata in su le tue accuse? (5)

                    (1)
               Note -   Vedi come io mi apro, non c’è più niente dentro. Vedi come Maometto è storpiato
                                             (2)
               e straziato (parla di sé in terza persona)   Alì, cugino e genero di Maometto è uno dei suoi
               primi seguaci. Fece una specie di scisma nell’Islamismo stesso (la religione di Maometto) e
                                                              (3)
               perciò, secondo alcuni commentatori, aveva una ferita di più.   Tutti gli altri furono pro-
               duttori di scismi e divisioni nell’umanità: divisero ciò che doveva essere unito e perciò sono
                   (4)
               fessi.   Accisma = acconcia. Il diavolo colla sua enorme spada ci fende a mano a mano che gli
                                                                                   (5)
               passiamo accanto. Poi le membra si riuniscono per essere di nuovo tagliate e così in eterno.
               E tu che stai lì a musare (i commentatori non sono d’accordo nel significato di questa paro-
               la. In Toscana significherebbe: star lí zitti, quindi, stare a ciondoloni. Altri dicono dal latino
               mussare = bisbigliare) chi sei? Probabilmente la terzina significa: stai lì zitto ad aspettare un
               po’ prima di arrivare alla pena che ti diede Minosse, al quale tutto dovesti dire?


                 Né morte’l giunse ancor né colpa’l mena,  E disse: O tu, cui colpa non condanna,
               Rispose’l mio Maestro , a tormentarlo;  E cui già vidi su in terra latina,
                             (1)
               Ma, per dar lui esperïenza piena,   Se troppa simiglianza non m’inganna;
                 A me, che morto son, convien menarlo  Rimembriti di Pier da Medicina
               Per l’Inferno quaggiù di giro in giro;   Se mai torni a veder lo dolce piano
               E questo è ver così com’io ti parlo.  Che da Vercelli a Marcabò dichina.
                 Più fur di cento, che, quando l’udiro,   E fa’ saper a duo miglior di Fano,
               S’ arrestaron nel fosso a riguardarmi  A messer Guido ed anche ad Angiolello
               Per maraviglia obliando’l martiro.  Che, se l’antiveder qui non è vano,
                 Or dì a Fra Dolcin  dunque che s’armi,  Gittati saran fuor di lor vascello,
                            (2)
               Tu che forse vedrai il Sole in breve,   E mazzerati, presso alla Cattolica
               S’egli non vuol qui tosto seguitarmi,   Per tradimento d’un tiranno fello.
                 Sí di vivanda, che stretta di neve  Tra l’isola di Cipro e di Maiolica
               Non rechi la vittoria al Novarese,  Non vide mai sí gran fallo Nettuno,
               Ch’altrimenti acquistar non saria lieve.  Non da pirati, non da gente argolica
                 Poi che l’un piè per girsene sospese,  Quel traditor che vede pur con l’uno,
               Maometto mi disse esta parola,     E tien la terra, che tal, è qui meco
               Indi, a partirsi, in terra lo distese.  Vorrebbe di vederla esser digiuno.
                 Un altro che forata avea la gola ,  Farà venirgli a parlamento seco:
                                   (3)
               E tronco’l naso infin sotto le ciglia,  Poi farà sì, ch’al vento di Focara
               E non avea ma’ che un’orecchia sola,  Non sarà lor mestier voto né preco.
                 Restato a riguardar per maraviglia   Ed io a lui : Dimostrami e dichiara
                                                          (4)
               Con gli altri, innanzi agli altri aprì la canna,   Se vuoi ch’io porti su di te novella,
               Ch’era di fuor d’ogni parte vermiglia;  Chi è colui dalla veduta amara.







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