Page 244 - Lezioni di Letteratura Italiana
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Finora non vi è stata una pena vera e propria: quelli di là dell’Acheronte sono co-
               stretti a correr sempre, punzecchiati da insetti di cui, come le piante brulicano; quel-
               li di qua hanno una pena tutta morale, un desiderio senza speranza: non possono
               sperare che la luce li illumini.
                     Scendendo, si comincia a entrare nel mondo delle pene. Eccoci davanti ad
               anime che sono condotte, trascinate per l’aria e avvoltolate da una bufera che non
               cessa mai. Sono le anime dei lussuriosi, che si lasciarono portare o dal vizio o dalla
               passione; venti, tutti e due, che irresistibilmente portano. Scendono ancora a un al-
               tro girone sempre più breve e trovano anime sozze, che giacciono sotto una pioggia
               fetida; sembrano, come si vede da uno, briachi e quasi animali che giacciono nella
               loro lordura; sono i ghiottoni, i golosi. Qui c’è il supplizio della bufera, della pioggia
               e della grandine; supplizi naturali, che, a osservare bene, vengono dal peccato stesso,
               il vento della passione e la schifezza della golosità con tutte le sue turpi conseguenze.
               Passano a un altro girone, o cerchio, e qui la pena muta: è una pena da lavori forzati.
               Sono dei peccatori che rotolano dei massi e sono di due diverse specie: gli uni grida-
               no contro gli altri: -Perché tieni stretto? (i demoni) - E tu perché butti via?- Gli uni
               sono avari, gli altri prodighi: avari, come sogliono essere questi vecchietti ch’hanno
               sempre paura che manchino loro i denari da pagare il medico, le medicine, od altro;
               non quegli avari che strozzano per avidità e sono cupidi dell’altrui. Questi sono pec-
               catori veniali. E i prodighi, qui, sono degli spenderecci, non quelli che buttano i de-
               nari sul tavolo del gioco e dissipano tutto. Essi sono rei solo di dismisura nello spen-
               dere. Quei più prodighi come quei più avari, sono puniti più sotto; e sono costoro
               puniti pel troppo e pel poco. E anche qui D. fa omaggio alle teoriche di Aristoti[e]
               le: la virtù è un abito che sta in mezzo a due vizi collaterali. Qui la liberalità stareb-
               be nel giusto mezzo: se è troppa, diventa prodigalità, se poca, avarizia, quindi, non
               virtù in nessuno dei due casi. Tanto però la prodigalità quanto l’avarizia, queste di-
               smisure nello spendere, D. le chiama avarizia senz’altro, che, per lui, è il non uso o
               il troppo uso delle ricchezze. Egli dice, da buon poeta più che da uomo assennato:
               - Bisogna lasciar fare alla fortuna che è un angelo mosso da Dio; lasciamo fare a lei e
               non badate a queste bazzecole: spendete quello che dovete spendere e non vi occu-
               pate di altro. Ciò sarebbe contro certi libri sulla economia.
                     Scendono ancora e si trovano in un brago o melma, in cui sono per-
               sone che si picchiano, si urtano e si dicono contumelie; e in fondo al panta-
               no, come seppelliti, sono degli esseri che pare non abbiano nemmeno la forza
               di star su e gorgogliano come i botti e i ranocchi nel pantano. Anche que-
               sti sono contrari gli uni agli altri. La virtù che siederebbe nel mezzo, sarebbe
               la fortezza, la magnanimità. Ci sono alcuni che vogliono parere più forti di
               quel che sono e portano il cappello di sghembo e il pennacchio, gli speroni,
               il cavallo coi ferri d’argento e fanno la voce più forte del necessario: sono gli

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