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alla forca. Il Visentini presidente della corte Speciale, uno dei più feroci contro i
martiri, dovette dire la verità in questo modo: «Pietro Calvi affettò anche all’an-
nuncio della esecuzione capitale quell’indifferenza ch’egli soleva mostrare nei suoi
costituti (interrogatori); disse soltanto che non temeva la morte, da lui spesso, come
soldato, guardata in faccia.» Dunque, il colorito dell’affettare ce lo mette di suo il
Visentini. L’ufficiale, che comandava la scol[r]ta che conduceva al patibolo il Calvi,
aveva conosciuto il martire quando era ufficiale austriaco. Orbene, il Visentini colo-
risce da sbirro; l’ufficiale austriaco, invece, piange e lascia lagrimando quella funebre
vista.
Monsignor Luigi Martini, che è il buon prete, che assisté tutte le vittime di
Mantova (i dieci di Belfiore e P. F. Calvi) racconta la sua morte:
«…Oh sì, penò più di tutti gli altri! Imperciocché, fosse mò la robustezza del
suo fisico, fosse mò impressione del capestro strozzatore, o troppa brevità della co-
lonna, perché egli toccava quasi la terra coi piedi stirati, o fosse tremore e fiacchezza
nei carnefici, è fatto, che dati i soliti giri alla carrucola, Pietro non era morto. Si
udiva un profondo gemitìo, pietosi si movevano gli occhi coperti di un legger velo
di lagrime, il petto ansava, le membra tremavano di una paralisi la più straziante:
«Un ufficiale si avvide della lunga agonia di Pietro, onde che pieno di do-
lore e di collera venne dal boia, gridando: – com’è questa cosa? È morto, o no? - Il
boia era confuso, per non dire avvilito, e forse meccanicamente rispose:– è morto
- purtroppo era vero! Perché il cinereo colore cominciava a coprire la faccia gialla
di Pietro, l’occhio repente si era chiuso, il tremito delle membra, l’ansare del petto
avevano cessato, l’anima leale e generosa aveva spiegato il suo volo al Cielo…
Tutte queste vittime sacrificate per terrorizzare, non veramente perché aves-
sero commesso reati gravi anche politici scoperti dai giudici, tutto questo sangue,
queste atrocità di supplizi, è naturale che anche a uno storico così sereno e calmo
come il Luzio, suggeriscano che ci fu una vendetta per quel regnante che poteva
graziare tanti infelici e non lo fece: (Alessandro Luzio - I Martiri di Belfiore; pag.
288-290 - Milano, Cogliati, 908 - £ 5)
«Quali terribili versi sgorgherebbero dall’anima di un grande poeta che ci
descrivesse la Nemesi spiccante il volo dalle zolle insanguinate di Belfiore e di S.
Giorgio per punir gli uccisori, con tarda esemplare vendetta!
«È il 3 luglio 1866 e l’orgoglioso Benedek, travolto nella fuga incomposta
e folle di Sadowa, passa vicino alla fortezza di Josefstadt, dove tanti cospiratori de’
processi di Mantova hanno fremuto e sofferto per sua sentenza. L’Elba ingoia così
gli insepolti cadaveri anche la fama e la fortuna del generale ungherese, che premeva
col tallone insolente il patriottismo italiano. La sorte gli infligge la punizione più fie-
ra, facendo passare sul suo corpo quel ferreo spietato sistema, a cui aveva sacrificato
il suo carattere cavalleresco di magiaro, la sua poesia di soldato.
«È il 19 luglio 1867: il «puro, forte, bello» Massimiliano è fucilato a
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