Page 224 - Lezioni di Letteratura Italiana
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la delicatezza dei sentimenti di Virgilio.  Eurialo non dimentica la madre; è un buon figlio-
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               lo; ma, soprattutto, è un buon poeta Virgilio che conosce il cuore umano.  Non è bello,
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               questo; ma sono cose primitive. I Poeti, però, quando descrivevano i primi tempi dell’uma-
               nità, avevano in cuore il presentimento del grande avvenire umano.   In questo momento il
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               Poeta si commuove nonostante che le regole della poesia epica non permettano di far sentire
               i propri sentimenti. Quanti anni sono passati! Eppure la fine di questi due eroi commuove
               ancora: il poeta è durevole più che ogni potenza umana.   Anche questa è barbarie dei pri-
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               mi tempi; ma ricordiamo che un secolo fa le stesse cose si facevano dai sanculottes a Parigi.
               Chi ha dimenticato la miseranda fine della principessa di Lamballe? Noi siamo figli della Ri-
               voluzione francese, ma abbiamo il dovere di rinnegare della Rivoluzione Francese ciò che è
               brutto: il sangue non produce che sangue. Il brutto della grande rivoluzione è quello che im-
               pedì agli uomini di cogliere i frutti di tante altre idee che essa sparse nel mondo. La nostra,
               invece, fu buona, pia, grande; e noi la possiamo contrapporre all’altra.   Anche nella morte
                                                                    (7)
               di Ettore, accorse la madre, ma con quanto maggior sentimento in Virgilio! Ella fa un gran-
               de lamento e qui termina l’episodio.

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                     Quante morti di eroi possono contare la nostra letteratura e la nostra storia?
               Limitiamoci alla storia. Ricordiamo quelli che a noi hanno dato la scienza del mo-
               rire, come diceva Goffredo Mameli, che imparò questa scienza e morì all’assedio
               di Roma. Prima del ’48, coloro che si diedero la scienza del morire furono i Fratel-
               li Bandiera; dopo, i martiri di Belfiore. Si rimprovera a torto, al Mazzini, che non
               c’entrò, d’aver prodotto quella sterile ecatombe della fucilazione dei fratelli Ban-
               diera. Ma chi la chiama sterile sbaglia di molto. Quel sangue ribollì e diede buoni
               frutti. Una volta si deve morire; e quando si muore a quel modo è tanto di guada-
               gnato. Tutti i nove moschettati nel vallone di Rovito mostrarono sereno coraggio.
               Uno di essi, il Lupatelli, l’umbro popolano dalla mente sveglia, serbò, inanzi la mor-
               te, inalterato lo spirito faceto. Egli disse che alla prima scarica avrebbe fatto tre sal-
               ti indietro gridando: Viva l’Italia! E così fece. Erano maestri, costoro, della scienza
               del morire! Dei martiri di Belfiore si può ricordare principalmente Pietro Fortu-
               nato Calvi, che, veramente, non fu impiccato a Belfiore, ma in un luogo separato,
               presso la sinistra fortezza di Mainolda. Egli era stato ufficiale austriaco e aveva dato,
               nel ’42 regolarmente le sue dimissioni per combattere con gli Italiani. Gli Austria-
               ci si ricordarono di ciò quando l’ebbero fra le mani e fu condannato a morte non
               ostante che essi non potessero ritenerlo disertore. Morì dolorosamente, ma serena-
               mente. Quando gli lessero la sentenza di morte, egli offrì sigari a chi gliela lesse e fu-
               mò egli pure incamminandosi al patibolo. Gli Austriaci vollero ottenebrare un po’
               la sua morte e contrapposero qualche particolare che dimostrerebbe poco coraggio
               in lui. E non sarebbe stato strano, data l’ignobilità del supplizio: un militare non va

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